Fertilità e procreazione assistita, parliamone

Sotto la voce “diritti sessuali e riproduttivi” non ricade solo l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza, alla contraccezione, alla pillola del giorno dopo o alla Ru486: essa racchiude almeno un altro tema, quello della fertilità e dell’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Ne parla Ingrid Colanicchia sul n. 6/2021 della rivista Nessun Dogma.
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Per chi si occupa di diritti delle donne, parlare di diritti sessuali e riproduttivi è pane quotidiano, soprattutto perché essi vengono violati o minacciati costantemente, dando la sensazione (tutt’altro che peregrina) di dover lavorare incessantemente per la loro difesa.

Esempio lampante di ciò è il dibattito sull’aborto e sulla legge 194 del 1978, di continuo alla ribalta. Da un lato per gli attacchi del papa, che in più di una occasione ha paragonato i medici che praticano aborti a sicari; per le campagne dei movimenti nochoice; e per le dichiarazioni e le azioni di quei politici che sul corpo delle donne costruiscono il loro consenso. Dall’altro, e in reazione, per le denunce e le mobilitazioni delle donne che difendono con le unghie e con i denti questa legge che, pur con tutti i suoi limiti (1), ha rappresentato una conquista fondamentale in materia di autodeterminazione delle donne.

Sotto la voce “diritti sessuali e riproduttivi” non ricade però solo l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza, alla contraccezione, alla pillola del giorno dopo o alla Ru486: essa racchiude almeno anche un altro tema, di cui invece si sente parlare pochissimo, quello della fertilità e dell’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (pma).

Negli ultimi vent’anni due momenti precisi hanno scandito il dibattito in materia nel nostro Paese, a riprova della scarsità di occasioni in cui esso si è imposto all’attenzione dell’opinione pubblica: l’approvazione nel 2004 della legge 40 che regolamenta la pma (e il referendum dell’anno successivo) e la campagna del Fertility day lanciata nel 2016 dal ministero della salute.

Come si ricorderà, tutto il dibattito sulla legge 40 e sui quesiti referendari volti a bocciarne le parti più limitanti vide un notevole dispiegamento di forze da parte della Chiesa e in particolare del cardinal Camillo Ruini, allora presidente dei vescovi, al punto che nel febbraio del 2005 fu persino creato il comitato “Scienza e vita”, formato da personalità del mondo laico e cattolico che, facendo proprio l’invito di Ruini, si impegnarono nella mobilitazione per l’astensione nei referendum, nel tentativo – riuscito, visti gli esiti del voto – di evitare quello che per la Chiesa avrebbe costituito un «peggioramento della legge 40», considerata un prezioso argine al «far west procreativo».

Per fortuna, da allora, sotto i colpi della Corte costituzionale sono caduti uno a uno (quasi) tutti i limiti della versione iniziale della legge: divieto di diagnosi pre-impianto, divieto di crioconservazione, impianto unico e contemporaneo di massimo tre embrioni, divieto di eterologa; è rimasto in piedi “solo” l’accesso limitato alle coppie eterosessuali.

Altrettanto discutibile fu la campagna del Fertility day. Ricordava tanto l’invito a fare figli per la Patria di mussoliniana memoria. Definiva la fertilità “bene comune”, negando dunque in qualche modo l’autodeterminazione sul proprio corpo. Parlava della sessualità come biologicamente destinata alla procreazione, delegittimando di fatto qualsiasi rapporto non finalizzato a questo scopo. Non considerava la libertà di non fare figli. Suscitò un tale vespaio di polemiche che la cosa finì lì, non ebbe alcun seguito.

Così, la questione della fertilità (e dell’infertilità) è tornata sotto il tappeto (e visto l’approccio scelto fin qui a livello politico non possiamo neanche rammaricarcene). Non ne parlano i ginecologi se non nella migliore (?) delle ipotesi quando è quasi troppo tardi, per dirti (a volte in malo modo) che è tempo di darsi una svegliata. Non se ne parla a scuola perché non si fa educazione sessuale e quindi non si tocca neanche questo argomento. Non se ne parla nei luoghi e negli spazi femministi, dove invece tutti gli altri aspetti relativi ai diritti sessuali e riproduttivi sono all’ordine del giorno. E non se ne parla perché ci abbiamo messo così tanto a decostruire l’idea che la maternità sia un destino che ora dire (dirci, dirsi) che la si può desiderare sembra eretico.

La mancanza di un dibattito pubblico (e di informazioni precise) a riguardo genera però un quadro sfocato della questione, da cui si può desumere l’errata convinzione – per esempio – che la procreazione assistita sia in grado di realizzare i desideri di tutte le coppie che si immettono in questo percorso.

E allora parliamone di questa fertilità e parliamone sia sottolineando i passi compiuti dalla scienza, che consentono attualmente soluzioni riproduttive prima inimmaginabili, sia sottolineando che per tante donne ultraquarantenni che rimangono incinte di cui sentiamo parlare, ce ne sono molte di più che invece non ci riescono né naturalmente né attraverso tecniche di fecondazione assistita. Secondo l’istituto superiore di sanità, l’infertilità è un fenomeno in crescita che riguarda circa il 15-20% delle coppie, ed è determinato da diversi fattori. «L’infertilità riguarda in uguale misura sia gli uomini sia le donne, e anzi alcuni studi sottolineano la crescita dell’infertilità da fattore maschile.

Inoltre, sono ormai sempre più numerosi gli studi che dimostrano un declino della fertilità maschile correlata all’età. Una prima riduzione della qualità dello sperma inizia già dopo i 35 anni (ed è significativa dopo i 40 anni) ed è correlata spesso a una maggiore incidenza di aborti spontanei, indipendentemente dall’età della donna. Gli studi più stringenti sono stati condotti sulle coppie infertili, ma anche le prime ricerche condotte sulla popolazione generale hanno dimostrato un aumento del tempo di attesa di una gravidanza nelle coppie in cui l’uomo ha più di 35 anni». Per quanto riguarda le donne, dal sito del ministero della salute apprendiamo che «la fertilità risulta massima tra i 20 e i 30 anni, subisce poi un primo calo significativo, anche se graduale, già intorno ai 32 anni e un secondo più rapido declino dopo i 37 anni, fino a essere prossima allo zero negli anni che precedono la menopausa, che in genere si verifica intorno ai 50 anni».

E le varie tecniche di procreazione assistita? Come anticipavo non sono risolutive per tutte le coppie. Fanno nascere ogni anno in Italia circa diecimila bambini ma la probabilità di ottenere una gravidanza per ciclo di trattamento è inversamente proporzionale all’età: i dati relativi al 2018 ci dicono che su cento cicli a fresco (Fivet/Icsi 2) iniziati in pazienti con meno di 34 anni sono state ottenute circa 22 gravidanze; mentre su cento cicli iniziati in pazienti con età maggiore di 43 anni ne sono state ottenute circa cinque.

Portare a conoscenza di tutti e tutte questi dati aiuta a compiere scelte consapevoli. Ma non basta. Servono anche le parole di chi all’interno di un percorso di fecondazione assistita ci ha camminato, per costruire una narrazione quanto più completa possibile di cosa significa vivere sulla propria pelle storie di infertilità e genitorialità incompiute.

Lo fa, con grande capacità, un libro pubblicato di recente da Fandango: In fondo al desiderio. Dieci storie di procreazione assistita, in cui l’autrice, Maddalena Vianello, ha raccolto le voci di dieci donne che, partendo da situazioni diverse e approdando a presenti altrettanto diversi, quel percorso lo hanno fatto.

Non si tratta di un’ode alla maternità, Vianello lo chiarisce sin da subito. «La scelta della maternità non ha nulla, ma proprio nulla di nobile rispetto alla decisione di non riprodursi. E viceversa. Le une non sono vittime del patriarcato incapaci di ribellarsi di fronte al destino biologico, le altre non sono bambine mai cresciute, inermi di fronte al proprio egoismo».

È invece l’avvio di una riflessione condivisa che, come scrive nell’introduzione Barbara Leda Kenny, ci «aiuta a capire meglio di cosa abbiamo bisogno, a mettere a fuoco come dovrebbe essere un servizio pubblico che ci permette di realizzare il desiderio di maternità. Questo percorso le donne l’hanno fatto per l’educazione di genere, per l’interruzione di gravidanza, per l’accompagnamento al parto e per il parto».

È giunta l’ora di farlo anche per la fecondazione assistita.

Ingrid Colanicchia

 

Approfondimenti

  1. La legge 194 (che parla di «Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza») non riconosce un vero e proprio diritto all’aborto in capo alla donna bensì stabilisce le condizioni (anche piuttosto stringenti) entro cui l’aborto non è reato.
  2. Si tratta di due tecniche di fecondazione assistita. La Fivet è la fecondazione in vitro con trasferimento di embrioni in utero; la Icsi è la fecondazione in vitro tramite iniezione di spermatozoo in citoplasma.

 

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