Raif Badawi è libero! O forse no?

Lo scrittore e attivista saudita Raif Badawi, coraggioso promotore di idee illuministe e liberali, dopo molti anni di carcere con l’accusa di aver minato la religione islamica è stato finalmente rilasciato. Ma non può ancora espatriare dall’Arabia Saudita per riunirsi alla sua famiglia, che intanto ha ottenuto l’asilo in Canada. Valentino Salvatore ripercorre la sua storia sul numero 3/22 di Nessun Dogma.

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Immaginate di vivere in un paese esotico e sfavillante, guidato da un re illuminato. Potete fare una vita tranquilla, cogliere i frutti di un’economia rampante alimentata da petrodollari e compiacenza occidentale. Se siete ligi al dovere, rispettate la corona e seguite la religione. L’unico cruccio, forse, è non avere diritti – a parte quelli concessi dal magnanimo capo. Ma se turbate quest’ordine fiabesco rischiate grosso. Ci vuol poco a diventare nemici dello stato e della fede. Questo paese è (ancora oggi) l’Arabia Saudita. Un regno fondato sul rigido islam sunnita wahhabita, che mantiene il consenso grazie a sussidi, feroce repressione e pervasivo indottrinamento.

Raif Badawi, classe 1984, vuole di più per la sua nazione. Il suo crimine? Promuove idee illuministe di libertà, diritti civili, emancipazione femminile, separazione tra stato e religione. Spera in una evoluzione gentile della monarchia fuori dalla cappa dei chierici. Diversi suoi contributi, in gran parte apparsi on line tra 2010 e 2012, sfuggiti alla censura e all’oblio sono raccolti in un libro curato da Constantin Schreiber con l’aiuto della moglie di Badawi, Ensaf Haidar. Un assaggio di quanto l’attivista ha divulgato, la cui portata è dirompente, con una scrittura lucida, ironica, piena di caparbietà e speranza. Si ispira ai pionieri del liberalismo arabo per elaborare un pensiero laico che non sia fotocopia di quello occidentale: élite e giovani devono smettere di essere intellettualmente succubi dell’occidente.

Che d’altronde ha le sue derive conservatrici e colonialiste. Ma il passo avanti devono farlo gli arabi: aprirsi, accettare idee altrui e diversità. Le società chiuse e sottomesse al clero diventano asfittiche – come, chiosa, l’Europa medievale dominata dalla chiesa cattolica. Ci tiene a smontare il pregiudizio che il liberalismo sia ostile alla religione: lo stato liberale dà a tutti libertà di culto, non è ateo. Il liberalismo «si può sintetizzare nel principio: vivi e lascia vivere». Appoggia le rivendicazioni femminili, è contro l’imposizione del “guardiano” maschio e svela l’ipocrisia di usanze nuziali religiose che coprono rapporti occasionali o divorzi. Valorizza posizioni relativamente “aperte” del primo islam, contesta il regresso sociale degli ultimi decenni, la fobia verso ikhtilat (“mescolanza”, cioè la compresenza di uomini e donne in contesti sociali) e khalwa (un uomo e una donna soli in ambienti chiusi).

Con pungente ironia smonta le pretese dei teologi che attaccano la scienza. Sulla questione palestinese ha una posizione impopolare tra gli arabi. È contro l’invadenza di Israele, ma precisa: «non scambierei mai l’occupazione israeliana con uno stato teocratico» di Hamas, che sparge «una cultura di morte e d’ignoranza». Nutre speranze per la rivoluzione popolare delle primavere arabe, celebra le manifestazioni di piazza Tahrir al Cairo. Ma con profetica lucidità lancia l’allarme contro estremisti che «sognano un ritorno al califfato». Pochi anni dopo l’Isis infurierà nel Medio Oriente.

Da ragazzo Badawi è ritenuto una testa calda: la madre Najwa, cristiana libanese, muore prematuramente e a 13 anni il padre Muhammad lo denuncia per “disobbedienza”. Passa sei mesi in un centro di detenzione, tra indottrinamento e violenze. Perdura il rapporto burrascoso col genitore, che disapprova pubblicamente le sue idee: tale ostinata “disobbedienza” è citata al processo per aumentargli la pena. Nel 2002 si sposa, malgrado l’opposizione della famiglia.

Nel 2006 apre un forum on line che coinvolge centinaia di utenti. Viene attenzionato dalla polizia religiosa (mutawwiʿa) nel 2007 perché il sito «insulta l’islam»: il procuratore chiede cinque anni. È interrogato, la casa perquisita, ma stavolta il caso è archiviato. Chiude il forum e si trasferisce all’estero per calmare le acque, va pure a Londra ed entra in contatto con associazioni per i diritti umani. Torna in patria e nel 2009 fonda il sito Free Saudi Liberals, che lo renderà più noto (e scomodo), con migliaia di sostenitori. Un chierico salafita, oltranzista persino per il governo, emana una fatwa di morte. Badawi lancia una “giornata per i liberali sauditi” il 7 maggio, incoraggiando a parlare di politica, società e religione. Riparte un’inchiesta, nel 2012 è accusato di apostasia e rinchiuso nella prigione Burayman. In Arabia Saudita, l’abbandono dell’islam può costare la pena di morte. La prima condanna, pesantissima, è di sette anni di prigione e 600 frustate.

Cade l’incriminazione di apostasia perché al processo recita la professione di fede islamica (shahādah). Una “confessione” che rievoca i processi inquisitoriali: non può parlare col suo legale e gli si imputa persino il like a una pagina Facebook di arabi cristiani. L’avvocato è Waleed Abulkhair, che ha sposato sua sorella Samar. Anch’egli, per l’impegno contro le storture della “giustizia” saudita, viene condannato a 15 anni. La stessa Samar è reclusa per l’attivismo a favore dei diritti. Già nel 2010, in attrito col padre, viene arrestata per “disobbedienza” come il fratello. Seguono detenzioni per le coraggiose campagne femministe contro l’imposizione del “guardiano” e il divieto di guidare. L’arresto del 2018 è un caso diplomatico: il Canada interviene, i sauditi cacciano l’ambasciatore e impongono sanzioni. È rilasciata nel 2021.

Vista la mala parata, la moglie e i tre figli di Badawi espatriano. Rifugiati nel 2012 in Canada, ottengono la cittadinanza. L’anno dopo in appello la pena di Raif Badawi è inasprita: dieci anni di carcere e mille frustate. E per altri dieci anni non potrà andare all’estero né interagire sui media. La feroce punizione prevista dalla sharia va somministrata in comode rate da 50 frustate. Le prime, il 9 gennaio 2015 davanti alla moschea Al Jaffali. Sono le ultime, causa le precarie condizioni di salute del condannato. Nel rievocarle dirà di essere «soltanto un uomo esile sia pure tenace, sopravvissuto quasi per miracolo a cinquanta colpi di frusta davanti a una folla osannante che gridava senza sosta Allahu Akbar». Due giorni dopo la delegazione saudita sfila a Parigi per il corteo di solidarietà a Charlie Hebdo. La cui redazione, accusata di blasfemia verso il profeta Maometto, è stata massacrata da jihadisti.

La Corte suprema saudita conferma la pena a Badawi. Diversi paesi occidentali e organizzazioni (quali Amnesty International, Humanists International, Pen, Reporter Senza Frontiere) portano alla ribalta il caso. Si mobilitano con appelli e manifestazioni, denunciano le violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita. Arrivano diversi riconoscimenti, tra candidature al Nobel per la pace, il premio Sakharov dell’Unione Europea, il Prix de la Laïcité.

Per denunciare le paurose condizioni di prigionia e la mancata assistenza medica, l’attivista nel 2016 fa un primo sciopero della fame. Rischia la vita, è ricoverato in ospedale. Nel 2017 Humanists International riporta al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite un appello di Haidar per chiedere l’intervento sull’Arabia Saudita affinché rilasci il marito e altri attivisti incarcerati. Sconsolante l’ipocrisia della comunità internazionale: l’Arabia Saudita, malgrado le continue violazioni dei diritti, ha pure strappato per qualche tempo la presidenza di quello stesso consiglio Onu.

Non deve guardarsi solo dalle angherie dei carcerieri, ma anche dagli altri detenuti – diversi accusati di terrorismo, talvolta islamisti più estremi di quelli al governo. Tenere un uomo bollato come apostata in questo ambiente somiglia alla storia dell’agnello tra i lupi. Nel 2020 un terrorista, detenuto con lui nella prigione di Dhahban, tenta di ucciderlo. A questo punto, l’ennesimo sciopero della fame per denunciare la mancanza di tutele.

Nel 2020, grande novità dal regime saudita: il principe Mohammed bin Salman, erede al trono e a capo del governo, cancella la pena delle frustate. Badawi potrà evitare i restanti 950 colpi. Nonostante l’impegno per dare una nuova immagine al regno, aperta al mondo (e agli investimenti) con qualche riforma, rimane un sottofondo di arcaico islamismo. A parte il truculento caso del dissidente Jamal Khashoggi, rapito e ucciso da agenti segreti sauditi nel 2018, basti dire che in un sol giorno – il 12 marzo 2022 – vengono eseguite le condanne a morte di 81 persone (più di tutto il 2021). Da buon regime repressivo, la monarchia teocratica saudita ha inasprito nel 2014 la normativa anti-terrorismo, comprendendovi la propaganda di ateismo e la critica dei principi islamici. In un paese che vive un’ondata sotterranea di secolarizzazione: mancano statistiche ufficiali, ma un sondaggio Gallup del 2012 stima un 19% di sauditi non religioso e un 5% di “atei convinti”.

Forse Badawi è ancora vivo grazie all’attenzione di tanti attivisti e istituzioni sul suo caso. Ma l’Arabia Saudita lo tiene sotto torchio. È ancora in carcere quando parte un’altra indagine per incitamento dell’opinione pubblica e danneggiamento della reputazione del regno. Nel marzo del 2022 almeno una bella notizia: Raif Badawi è rilasciato. Ha 38 anni, la moglie e i figli all’estero: per altri dieci anni non potrà lasciare il paese e rivederli. Solo la grazia reale può ridargli davvero la libertà. Le sue vicissitudini sono la punta dell’iceberg delle contraddizioni del “rinascimento” saudita, esaltato da politici (pure nostrani) e coccolato da potentati economici.

Valentino Salvatore

Approfondimenti

  • Raif Badawi (a cura di Constantin Schreiber): 1000 frustate per la libertà, Chiarelettere, 2015
  • Raif Badawi: Dreaming of Freedom. Graphic novel dedicata all’attivista, in inglese e francese, disponibile su bit.ly/3GcGPg5
  • Approfondimento sul caso Badawi a cura di Humanists International: bit.ly/3GaEK4g

 

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Un commento

Gérard

Una cosa che ho fatto qualche anno fa è stato comprare una decina di opuscoli raccogliendo testi dal blog di Raif Badawi che aveva scritto prima della sua detenzione. Questi libri sono stati utilizzati per pagare le spese legali di Raif. Questi opuscoli li ho spediti ai miei amici a fine anno con il tradizionale biglietto di auguri di buon anno . Questa è una cosa che ognuno potrebbe fare . Inoltre segnalo che nella vicina Germania (vivo a 10/12 km del confine ) ci sono sempre sit-in organizzati per chiedere la liberta totale di Raif Badawi .

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