Referendum, il fantasma della data

(di Michele Ainis. Fonte: La Stampa) Le date, si sa, sono importanti. Per gli individui, non meno che per la società nel suo complesso. Sarà per questo che il governo vuol pensarci bene prima di segnare sul calendario una crocetta, prima di dirci quando cadrà l’appuntamento con il referendum. Per quanto tempo ancora dovrà prolungarsi la suspense? E questa competenza del governo descrive un potere senza regole, senza controlli? Si tratta inoltre d’un potere solitario, o qualcun altro ha titolo per concorrere alla decisione sulla data? La legge stabilisce che i referendum siano votati in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno. Questa finestra temporale di due mesi vuole evidentemente consentire la scelta più appropriata in rapporto alle diverse congiunture della vita nazionale. A sua volta, la scelta non può che essere orientata verso una data che incoraggi il flusso elettorale, non già il deflusso: altrimenti la legge stessa avrebbe permesso di votare il giovedì (quando gli italiani sono un po’ tutti al lavoro) o il giorno di Natale (quando i più sono partiti per le ferie). Ergo, il potere governativo non è affatto libero nel fine, bensì piuttosto vincolato al fine d’ottenere la massima partecipazione elettorale. Ergo, questo potere non soggiace a calcoli di schieramento, a differenza per esempio della potestà riconosciuta al Cabinet britannico di convocare le elezioni nel momento politico che gli è più favorevole; soggiace viceversa all’obbligo costituzionale di dare corpo e gambe al referendum. Poi, certo, ciascuno sarà libero di recarsi o no alle urne. Ma deve trattarsi per l’appunto d’una scelta consapevole, e non già di un’imposizione più o meno mascherata. Sicché la decisione di farci votare il 5 giugno (nell’ambito di un ponte lungo quattro giorni), o peggio ancora il 12 (quando le spiagge sono ormai piene di lettini e d’ombrelloni) implicherebbe la volontà di sabotare la consultazione. E sarebbe una volontà illegittima, anche perché nessun ostacolo giuridico impedisce di tenere a maggio il referendum, pur in concomitanza con le amministrative: un abbinamento anzi felice, se lo scopo è di coinvolgere davvero gli elettori. D’altronde l’election day non è forse un cavallo di battaglia del governo? Ma in questa decisione l’esecutivo non è solo, o almeno non dovrebbe. Altrimenti perché mai la Corte costituzionale ha riconosciuto la dignità di «potere dello Stato» al comitato promotore? Sennonché i promotori raccolgono le firme, propongono la denominazione dei quesiti in Cassazione, ne difendono l’ammissibilità dinanzi alla Consulta, dopo di che diventano un potere invisibile e remoto, come il Cavaliere inesistente di Calvino. Da qui l’obbligo d’ascoltarli, se non di concertare la data insieme a loro. Sempre che, beninteso, il governo abbia davvero a cuore la legalità del referendum.

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