di Giacomo Papi. Fonte: Diario della settimana.
Piazza San Pietro era affollata, ma tra le persone si aprivano grandi spazi vuoti. Forse per il raccoglimento imposto dalla morte di Karol Wojtyla, forse per il flusso continuo e tranquillo che da due giorni percorre la piazza, forse per l’effettivo numero di chi ha voluto esserci, lo spettacolo di folla non era impressionante (non più, almeno, di una manifestazione sindacale ben riuscita). La gente non sembrava soltanto afflitta. Quando incrociavi occhi gonfi e sguardi attoniti, provenivano sempre dalle donne a testimonare che proprio sulle donne papa Giovanni Paolo II ha costruito gran parte della sua popolarità. Ma alle scene di pianto si susseguivano sorrisi, chiacchiere, canzoni, applausi, silenzi. A San Pietro sta andando in scena un grande e meraviglioso spettacolo da recitare collettivamente.
Eppure nessuno tra i fedeli, tra i distratti o tra i curiosi avrebbe mai ammesso che la propria partecipazione all’evento non fosse totalizzante. E nessuno dei giornalisti che hanno descritto e raccontato l’emozione di questa piazza, lo ha fatto cercando di vedere le differenze o di inquadrare i grandi buchi che la folla non sentiva nessun bisogno di colmare. A uno spettacolo non occorre credere del tutto, è richiesto solo di recitare bene la propria parte di attore, spettatore o commentatore. Si è trattato insomma di un’immensa veglia funebre in cui qualcuno piange, qualcuno racconta barzellette e qualcuno si corteggia senza dare troppo nell’occhio.
Nel pomeriggio, un gruppo di giovani preti latino americani (con strani ideogrammi sulle tonache nere e bei sorrisi in mezzo alla faccia) ciaccolava mentre ai loro piedi due ragazzi, senza che nessuno lo notasse neppure, si baciavano e toccavano con foga non solo spirituale. Circoli di papa boys per tutta la giornata hanno intonato cori da stadio (giovannipaolo-giovannipaolo) e canzoni che parlavano di Dio e resurrezione, tenendosi le mani in grandi girotondi. Non sembravano afflitti. Sembravano svolgere con gioia e dedizione il proprio compito. Poi irrompevano tre ultras della Lazio adolescenti e abbordavano allegramente, ricambiati, una delle papa girl. Qualche metro più avanti, un ragazzo irlandese pregava inginocchiato su una bandiera della pace, curvo, la testa tra le mani, tremante di pianto. Una suorina decrepita usciva dalla cappella della basilica destinata unicamente alla preghiera. Camminava con un bastone, a fatica, scuoteva la testa. Poteva avere 120 anni. Si girava da una parte e dall’altra guardandosi intorno, ma la sua andatura claudicante dimostrava che sapeva dove era diretta. Così non potevi fare a meno di seguirla, immaginando i suoi pensieri lungo la navata centrale, indovinando la sua vita mentre usciva dal tempio, chiedendoti dove abitasse mentre scendeva le scale, domandandoti se avesse mai consciuto il papa mentre gettava un’occhiata alle guardie svizzere, rimanendo divertito quando la vedevi infilarsi nella toilette pubblica saltando la fila.
Che sia stato uno spettacolo dove spettatori e attori hanno recitato sullo stesso palcoscenico scambiandosi le parti lo dimostra anche la quantità davvero impressionante di macchine fotografiche, telecamere e videofonini. La morte di papa Wojtyla è, anzi, il primo grande evento che sia stato registrato in massa dai videofonini. Rappresenta l’irruzione di questo strumento sulla scena della storia.
Non poteva che essere così. Oggi si è recitato lo spettacolo, triste e allegro, in generale sereno, della vita e della morte secondo il metodo di recitazione di Santa romana chiesa, il più antico, maestoso e raffinato palcoscenico dell’umanità, e di Karol Wojtyla, uno dei più grandi attori che il Novecento abbia avuto.