La telefonata disperata di una diciassettenne in lacrime ha posto la Procura di fronte a un dilemma morale e giuridico: entro che limiti una madre fermamente contraria all’aborto può vietare alla figlia minorenne di esercitare il diritto, riconosciuto dalla legge, di chiedere l’interruzione volontaria della gravidanza? A quali condizioni il consenso negato dai genitori può essere sostituito dall’autorizzazione dei giudici o degli stessi medici curanti? Queste e altre particolarità del caso hanno spinto ieri i ginecologi della Mangiagalli, la clinica pubblica con il più grande polo di maternità e ostetricia di Milano, a investire della questione i magistrati della Procura. La pm di turno (una donna) ha girato l’interrogativo ai più esperti colleghi del «pool famiglia», che hanno rinviato la decisione agli stessi medici: saranno quindi i ginecologi della Mangiagalli a stabilire, probabilmente oggi stesso, se (e quando) la diciassettenne potrà abortire nonostante l’opposizione della madre. L’intervento della Procura è stato sollecitato ieri pomeriggio con una serie di telefonate drammatiche. Prima una ginecologa della Mangiagalli e poi la stessa minorenne, che «continuava a piangere», hanno descritto alla pm una situazione che almeno a Milano ha pochi precedenti. La diciassettenne ha scoperto tardi di essere rimasta incinta ed è ormai al quinto mese di gravidanza. I test sanitari confermano che il feto ha «malformazioni gravissime». Dato che la ragazza ha meno di 18 anni, la sua richiesta di interruzione della gravidanza dovrebbe essere sostenuta dall’«assenso di chi esercita la potestà», che in questo caso è soltanto la madre. La signora però si è dichiarata assolutamente contraria a qualsiasi ipotesi di aborto, anche se «terapeutico» come nella situazione accertata dai medici. La madre è tanto contraria che non ha nemmeno accompagnato la figlia in ospedale, dove la minorenne è arrivata da sola, con i mezzi pubblici, «in uno stato di vera disperazione». […]
Paolo Biondani sul Corriere della Sera