È lodevole la disponibilità della Redazione di Firenze de la «Repubblica» a proporre la questione della laicità delle Istituzioni troppo spesso data per scontata se non dimenticata, quasi che quella separazione fra Stato e chiesa invocata da Dante nel «De Monarchia» sia ancora una chimera.
Il fatto “del crocefisso all’anagrafe” offre un’occasione di riflessione che a molti può sembrare marginale, così come marginale sembra ancora sia ritenuta l’esigenza di parte della popolazione di disporre di un luogo degno dove celebrare un funerale secondo riti, usanze e costumi che niente hanno a che vedere con la chiesa cattolica. Sono anni che chiediamo che la città offra un luogo adeguato aperto a tutti, ma il problema non ha ancora trovato accoglienza.
Il nascere, come del resto il morire nonché il vivere, non sono patrimonio esclusivo di una filosofia, di un credo o di una credenza, ma riguardano sempre per dirla ancora con “babbo” Dante, tutto “l’insieme degli abitanti d’una città”, quella civitas che viene da lontano e che si porta dietro anche significati come “affabilità, cortesia, moderazione”.
È proprio attraverso queste ed altre “piccole” cose del quotidiano che si cementa una comunità e si stabiliscono quei rapporti che permettono di trasformare una faticosa e fin troppo sbandierata tolleranza in saldo e reciproco rispetto.
Ovvio che come ateo “il crocefisso all’anagrafe” mi salti agli occhi in modo evidente, ma non credo che meno stupore sorga anche in aderenti ad altre fedi o confessioni. Uno stupore silenzioso perché ormai forzosamente abituati a dare per scontato che la diversità non dà il diritto a mettere in discussione certi privilegi ritenuti intangibili.
E così, come fosse una gentile concessione, l’assessore (si badi bene) alle Politiche e interventi accoglienza e integrazione, Lucia De Siervo, rivendica la presenza del tricolore. Vorrei ben vedere non ci fosse! Mi conforta però che proprio un pubblico ufficiale cattolico individui nel proprio simbolo di fede solo uno strumento di abbellimento ambientale: «Devo però far notare che la decisione è stata tecnica, operata dai direttori dei lavori e della struttura, che hanno deciso l’arredamento».
Dunque un oggetto, una suppellettile, una “cosa” e non un simbolo? Be’, se le cose stanno veramente così niente vieta di toglierlo semplicemente o sostituirlo con qualunque altro elemento di arredo meno “evocativo”. Oppure, se proprio lo si vuol lasciare, perché non accompagnarlo con immagini, insegne o altro relative alle molteplici culture che danno vita alla nostra comunità.
Quanto poi alla rivendicazione «E poi, sulla porta di in Palazzo Vecchio, c’è l’iscrizione che, tradotto in italiano, recita: “I fiorentini hanno dedicato il Palazzo all’illuminato re di Firenze, Gesù Cristo”», a parte l’opinabile traduzione su cui non vorrei cavillare e sulle beghe confessionali alle sue origini cinquecentesche (domandare al Savonarola), mi piace ricordare che quello che oggi chiamiamo Palazzo Vecchio, nasce verso il 1294 su ispirazione di Giano della Bella promotore di un governo popolare e ispiratore degli Ordinamenti di Giustizia, alla base della democrazia – non sempre salvaguardata – fiorentina.
Dunque una citazione di comodo, quasi che il tempo debba passare invano e democrazia, rispetto nonché “affabilità, cortesia, moderazione” non debbano trovare casa a Firenze. Eppure è proprio da queste “piccole cose che si misura la laicità.
per il Coordinatore del circolo fiorentino
Marco Accorti