Nel suo intervento al Sinodo dei vescovi Papa Benedetto XVI ha lamentato di una marginalizzazione del discorso religioso dal discorso pubblico. Può sembrare una preoccupazione fuori posto e persino paradossale in un’epoca, e in un Paese come il nostro, in cui i politici e gli opinionisti fanno a gara a dichiarare la propria religiosità, o almeno la propria ricerca di Dio, e in cui autorevoli esponenti della Chiesa prendono posizione non solo sui valori, ma anche sulle soluzioni legislative e le tecniche elettorali e talvolta anche su questioni del tutto irrilevanti dal punto di vista religioso, come le intercettazioni telefoniche. Tuttavia mi sembra che, intenzionalmente o meno, il Papa, nel denunciare l’assenza di Dio dalla vita pubblica, segnali un problema le cui cause, prima che esterne, sono tutte interne alla Chiesa come istituzione. L’assenza di Dio dalla vita pubblica va infatti di pari passo con la sistematica confusione – ad opera di molti esponenti della Chiesa cattolica (a partire dal segretario della Cei mons. Ruini) e di molti cosiddetti laici devoti – tra discorso pubblico e discorso tout court politico. E tra diritto di parola e di predicazione e imposizione erga omnes, se non dei propri principi di fede, delle norme giuridiche che si ritiene ne debbano discendere. Da questa confusione nascono tutti i fondamentalismi religiosi. Nascono anche le forme di indifferenza che preoccupano il Papa. Il rischio per la religione non è il suo confinamento nella sfera privata, ma il suo essere appiattita in discorso politico e di pretesa normazione pubblico-giuridica di ogni aspetto della vita privata e sociale. È a motivo di questa confusione che la Chiesa cattolica italiana sembra costantemente afflitta dalla sindrome della Chiesa del silenzio, neanche si trovasse nella situazione della Chiesa cattolica russa o cinese sotto il regime comunista. Ogni critica, ogni dissenso, viene interpretato non solo come un atto di lesa maestà, ma di attacco alla sua libertà di esprimersi come e su ciò che ritiene. Di più, chi non è credente (cattolico), o comunque non ritiene che la Chiesa cattolica abbia il monopolio dei valori e della definizione delle regole, automaticamente viene considerato con sospetto, quando non giudicato fuori norma. […] Ci si scandalizza, non si capisce perché, degli studenti che hanno contestato Ruini. Ci si straccia le vesti ogni volta che qualcuno chiede la rimozione di un simbolo religioso da un luogo pubblico, cioè di tutti. Addirittura si manda sotto processo un giudice che interpreta la legge e la Costituzione come garanzia della libertà di tutti, non di una sola parte. Ma non ci si scandalizza, non si protesta, spesso ci si accoda, nel migliore dei casi ci si rattrista un po’, della continua opera di squalificazione morale che la Chiesa come istituzione e i suoi prestigiosi rappresentanti italiani mettono in opera quotidianamente verso chi non la pensa come loro. […] I politici di ogni colore dovrebbero avere a cuore non solo la libertà della Chiesa cattolica e dei suoi rappresentanti, per altro pienamente garantita sul piano normativo e istituzionale, ma il rispetto della libertà e della dignità dei cittadini, a prescindere da come la pensino sulle posizioni della Chiesa e a prescindere dalla loro consistenza numerica. I vescovi italiani non si fanno intimidire. Non si può dire altrettanto della maggior parte dei politici, con pochissime eccezioni. Ciò non aiuta la laicità dello Stato e la democrazia, ma forse non aiuta neppure lo sviluppo di una coscienza religiosa, anche se può rafforzare la Chiesa come istituzione.
L’editoriale di Chiara Saraceno è stato pubblicato sul sito de La Stampa