Caso Tosti: una lettera di Pietro Ancona, la risposta di Sergio Romano

Il Corriere della Sera di oggi ospita una lettera del coordinatore del circolo UAAR di Palermo, Pietro Ancona, a proposito della vicenda che vede protagonista il giudice Luigi Tosti. Questo il testo della lettera di Ancona:
Mi rivolgo a lei per segnalare il silenzio con il quale si vorrebbe isolare e insabbiare il processo al giudice Luigi Tosti previsto per il 18 novembre prossimo. Il giudice si è rifiutato di amministrare giustizia in un’aula con crocifisso alla parete. Ha ritenuto che la giustizia si amministra soltanto in nome del popolo italiano sostenendo, a differenza di Ratzinger, che i diritti delle persone scaturiscono dalle leggi e non dalla volontà divina. Il dottor Tosti ha restituito allo Stato gli stipendi percepiti durante la sua volontaria ma necessitata astinenza dalle udienze. Penso sia giusto che la questione arrivi alla grande opinione pubblica che, assentendo o dissentendo, ha diritto all’informazione.
pietroancona@tin.it
Questa la risposta di Sergio Romano
Caro Ancona,
sul dottor Luigi Tosti i lettori del Corriere sono già stati informati da un articolo di Marco Imarisio apparso il 25 settembre. Personalmente credo che un pubblico ufficiale non dovrebbe servirsi delle sue funzioni per promuovere una causa o condurre una personale battaglia politica o ideale. Le funzioni non gli appartengono. Gli sono state conferite nell’interesse della società e non possono essere interrotte semplicemente perché il suo titolare vuole manifestare preferenze o dissensi. È questa la ragione per cui lo sciopero dei magistrati, dei diplomatici, dei poliziotti, di altri funzionari dello Stato e di certe categorie professionali collocate al confine tra il pubblico e il privato, mi sono sempre parsi sbagliati. Ed è questa la ragione per cui i giornalisti della Rai, a mio avviso, non dovrebbero servirsi dei loro microfoni e delle loro telecamere per annunciare pubblicamente, durante i notiziari, le ragioni delle loro proteste. Quei microfoni e quelle telecamere appartengono al pubblico, non ai sindacati. Dopo avere fatto questa premessa, debbo riconoscere tuttavia che la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche e nelle aule di giustizia mi sembra il retaggio superfluo di un’epoca in cui, come si leggeva nell’articolo 1 dello Statuto Albertino, il cattolicesimo era la religione dello Stato. Il regime fascista lo conservò perché volle fare un uso nazionalistico della tradizionale fede degli italiani. La Dc lo conservò perché era il simbolo dei suoi ideali politico-religiosi. Ma la sua presenza oggi non tiene alcun conto delle trasformazioni che il Paese ha subito nel corso di questi ultimi anni. Immagini un’aula nelle scuole elementari di Prato, dove i bambini cinesi sono talora più numerosi degli italiani, o un’aula di giustizia in cui un musulmano siede sul banco degli imputati o sulla sedia del testimone. Quando vedranno il crocifisso alle spalle dell’insegnante o del giudice avranno l’impressione che l’istruzione e la giustizia in Italia siano impartite nel nome di una religione diversa dalle loro credenze. Qualcuno potrebbe osservare che la scuola e la giustizia, in Italia, sono laiche. Ma allora perché trattare un simbolo religioso alla stregua di una decorazione storico-culturale? I primi a esserne dispiaciuti e infastiditi dovrebbero essere i cattolici. Qualche tempo, in Abruzzo, un cittadino italiano di religione musulmana, Adel Smith, sollevò la questione con riferimento alla scuola frequentata da suo figlio, e si rivolse a un tribunale italiano che gli dette torto, se non sbaglio, richiamandosi a certe disposizioni amministrative del ministero della Pubblica Istruzione. Ma quelle stesse disposizioni possono essere modificate. E credo che sia giunto il momento di farlo.
Sergio Romano
Segnaliamo anche che sul sito del Giornale è stata pubblicata oggi, a cura di Massimo Teodori, una interessante recensione dell’ultimo libro di Sergio Romano, “Libera Chiesa. Libero Stato?” (Longanesi, pagg. 156, euro 14,50).

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