Su «Repubblica» di oggi è stata pubblicata questa bella lettera del lettore Mario D’Adamo.
Abito in un piccolo comune della provincia di Udine (Buja). Ancorché non credente né ovviamente praticante, ricevo il notiziario della parrocchia. Sfogliandolo mi sono imbattuto in penultima pagina in una specie di saggio sull’esperienza del lutto. L’autore, che si firma don Daniele, dopo aver definito ossessive le pratiche di abbellimento delle tombe con fiori freschi e marmi sempre lucidi, aver citato in un abbraccio ecumenico quelli che cercano i loro morti nelle ceneri collocate sulla credenza o in giardino, attraverso i medium, le teorie della reincarnazione, si sbraccia a includere nella sua carrellata anche gli atei, i quali, non credendo in un «al di là», sarebbero paghi di un «al di qua vissuto da mangioni e da beoni». Io sono ateo ma non mi ritrovo nella casistica descritta dall’autore: mangio poco e bevo ancor meno (molta acqua, tuttavia).
Il punto allora è: la smodata assunzione di cibo e bevande è propria solo degli atei o è caratteristica anche di altri soggetti, che nutrono convinzioni religiose? Può uno essere ateo e ascetico o non sarebbe credibile? E se uno fosse mangione, e poniamo anche credente e magari ministro di una chiesa, la sua fede non sarebbe vera?