[…] Avevo nove anni. Il leader musulmano iraniano, l’ayatollah Khomeini, minacciava di morte mio padre per il suo romanzo ritenuto blasfemo, “Versetti satanici”. La dichiarazione dell’ayatollah, diffusa da Radio Teheran diceva: “Notifico all’orgoglioso popolo musulmano di tutto il mondo, che l’autore del libro “Versetti satanici”, che è contro l’islam, contro il profeta e contro il Corano, così come tutti coloro che hanno preso parte alla sua pubblicazione conoscendone il contenuto, sono stati condannati a morte”. Ricordo che mio padre mi chiamò quella stessa notte per dirmi che era in salvo, in compagnia di un gruppo di agenti scelti di Scotland Yard esperti in protezione. Si trovava nella prima delle numerose case che avrebbe occupato nei dieci anni seguenti. Le telefonate anonime a tutte le ore del giorno e della notte diventarono cosa normale. Quante volte avrò risposto al telefono e sentito una voce sconosciuta che diceva di sapere il mio numero di telefono (era evidente) e il mio indirizzo, e che avremmo pagato per la blasfemia di mio padre. Diventai quasi immune alle minacce e imparai naturalmente a viverle senza ansia. […] Non provo esattamente amarezza o risentimento, ma talvolta mi rendo conto quanto tutto questo abbia influenzato il mio modo di pensare e di comportarmi. Intanto, so di poter essere un grande cinico. Sicuramente la maggiore conseguenza indiretta, e forse anche logica, è la mia ferma avversione rispetto alla religione organizzata. Sono ateo e non ho mai sentito la minima esigenza di un dio. Ed è ovvio che non vorrei che mi si dicesse come praticare la fede. Forse è questo ciò che s’impara quando un capo religioso fondamentalista detta una condanna a morte contro tuo padre nel nome di Allah. O forse è semplicemente mancanza di fede e d’immaginazione. […] Durante una gita scolastica in Italia, circa nel periodo degli esami delle prime superiori, mi resi conto che due uomini dall’aspetto molto sospetto, con baffi e cappotto, avevano seguito il nostro gruppo tutta la mattina tra le rovine di Pompei. Per il nostro sgomento, più cercavamo di seminarli, più ci stavano attaccati. Inizialmente gli altri studenti erano preoccupati, finché all’improvviso ci rendemmo conto che quella mancanza di discrezione poteva solo significare che erano uomini della polizia italiana. Apparentemente, senza che la mia famiglia o io lo sapessimo, il nostro itinerario era stato notificato loro. Assieme ad altri colleghi, erano dieci giorni che ci seguivano per proteggermi dormendo nei nostri stessi alberghi. […] So bene che alcuni miei amici sono convinti che dovrei essere distrutto emozionalmente e in cura da uno psichiatra da anni. Rispondo sempre la stessa cosa: “Io sto molto bene”. Ed è davvero così. E chiaro che sono cresciuto in circostanze poco comuni: guardie del corpo, auto blindate, armi, minacce di morte e troupe televisive che mi assalivano da dietro le siepi. Ma questo, per me, è la normalità.
Il bel racconto di Zafar Rushdie è stato pubblicato sul sito di Repubblica