Daisy Nathan ha fatto cent’anni il 16 gennaio. Un fenomeno. Prende ancora l’aereo, cammina senza aiuto e legge. Apre la porta di casa sua a Roma e ti guarda curiosa con gli occhi color nocciola, appena vellutati dal tempo. In quegli occhi, il film di una vita: la famiglia ebraica, Trieste sotto l’impero d’Austria, il funerale di Franz Ferdinand (“Ah, quei lampioni a gas fasciati con drappi neri, quanto mi impressionarono”), le due guerre, il fascismo, la madre strappata dal letto e portata ad Auschwitz, il fratello pittore, Arturo, pure lui morto in un lager. Non ti dice una sola cosa che ricalchi il cliché. “Ce l’ho con Dio” mette subito in chiaro con un sorriso disarmante. “Se fosse l’essere misericordioso di cui si parla, non avrebbe permesso tutto questo”. […] “Le amiche dicono che sono allegra e terapeutica, mi raccontano tutto di loro. Ma io, dentro, sono complicata. Rimugino sulla vita. Passo ore a pensare, su questa poltrona, e il bello è che non mi annoio mai. Se non fosse che mi telefonano, non smetterei. E leggo tantissimo. Affogo nei libri, non riesco a buttarne via nessuno, per me sono come esseri umani. Mi dispiace solo che fatico con i giornali, i caratteri sono troppo piccoli”. […] Parla italiano ma pensa in triestino, lo mescola con un po’ di tedesco e inglese. “Da piccola non sapevo se ero austriaca o italiana. Poi è venuto fuori che ero ebrea. Oggi non so assolutamente cosa sono”. E la religione? “Sono laica a cento per cento, ma se avessi la fede tutto sarebbe più semplice”. C’è qualcosa in cui si sente migliore negli anni? “Nell’indulgenza, amico mio. Si impara a perdonare. Questo sì”.
Il servizio di Paolo Rumiz è stato pubblicato sul sito di Repubblica