Tecnicamente si chiamano “matrimoni di comodo”. Il caso classico è quello della giovane straniera che sposa un vecchietto italiano col solo scopo di acquisire la cittadinanza. Per porre freno al fenomeno, la legge Bossi-Fini ha stabilito che, in caso di matrimonio misto, il permesso di soggiorno per motivi familiari venga revocato se alle nozze non segue la convivenza. Il fine di questa norma severa e intrusiva (la verifica si realizza con una visita a domicilio della polizia) è evidentemente evitare che l’istituto matrimoniale diventi un mezzo per aggirare la legge e perda la sua funzione originaria di suggello giuridico dell’amore. Secondo la stessa logica, la convivenza di coppie miste prima del matrimonio, o anche senza alcuna prospettiva matrimoniale, dovrebbe essere considerata una dimostrazione di amore purissimo e assoluto. E tutelata come qualcosa di raro e prezioso. Ma non è così: se le coppie di fatto hanno una debole tutela giuridica, quando sono “miste” non ne hanno alcuna. L’unico amore possibile è quello, sempre che la polizia lo confermi, che si traduce in un “sì” sull’altare o dinanzi al funzionario dello stato civile. Al numero verde 800.90.10.10 dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali del Ministero per le Pari Opportunità (UNAR) sono giunte alcune segnalazioni che chiariscono quant’è dura la vita delle coppie miste. A volte, come nel caso di Sergio e Irini (i nomi, naturalmente, sono di fantasia) il rapporto si spezza. A telefonare, come di solito accade, è stato il partner italiano. Ha raccontato che conviveva con Irini, una ragazza ucraina, da più di due anni e che non si erano ancora sposati solo perché consideravano il matrimonio un passo troppo importante per compierlo col solo scopo di aggirare la burocrazia. Ma un giorno, nell’azienda tessile dove Irini lavorava in nero, viene effettuato un controllo. E Irini è individuata come immigrata irregolare. Conseguenza immediata, l’ordine di lasciare il territorio italiano. Sergio si presenta in questura. Racconta la sua storia d’amore, chiarisce che è seria, importante. Non c’è stato il matrimonio ma c’è già una vita assieme. Il funzionario capisce, è dispiaciuto. Ma, gli spiega, non c’è niente da fare: Irini deve partire. Sergio è molto giovane e, si dirà, anche ingenuo. Se avesse avuto una concezione un po’ meno sacrale del matrimonio, Irini oggi sarebbe ancora con lui. Il fatto è che l’idea che le coppie di fatto, e a maggior ragione quelle miste, abbiano meno diritti, appartiene al senso comune. Anche all’interno dell’amministrazione. Così può accadere che situazioni che invece trovano tutela per altre vie (come, per esempio, quella della maternità) vengano discriminate per sbaglio. Un’altra segnalazione giunta all’UNAR è stata quella di un cittadino italiano sposato con una peruviana “regolare”, cioè in possesso di permesso di soggiorno. Hanno un bambino e il cittadino italiano fa domanda al comune di residenza per ottenere l’assegno di maternità “per madri non lavoratrici”. La risposta è negativa: secondo il funzionario, per ottenere l’assegno non basta il semplice permesso ma è necessaria la carta di soggiorno, un documento che si può ottenere solo dopo sei anni di residenza. Un’applicazione meccanica della normativa. Infatti, spiega l’UNAR, la signora peruviana, in quanto madre di un cittadino italiano, può chiedere e ottenere la carta di soggiorno anche se non ha raggiunto il minimo di sei anni di residenza. Ma, per il funzionario comunale, l’idea negativa della convivenza ha prevalso sulla tutela della maternità.
Fonte: repubblica.it