[…] Non credo che la scuola possa divenire una sorta di supermercato dove ogni gruppo sociale, religioso o comunitario ha diritto a uno spazio vuoto da riempire con i suoi gusti e le sue inclinazioni. Vogliamo davvero organizzare classi separate per un paio di buddisti o atei? Siamo certi che qualche gruppo non pretenda più tardi l’insegnamento della storia del Paese d’origine o addirittura corsi di lingua materna, come fece il governo italiano per i suoi immigrati in molti Paesi europei sin dagli anni Settanta? Credo che in queste faccende la praticità e il buon senso siano più importanti di certi astratti principi democratici. E credo che il problema dell’ora di religione possa essere affrontato soltanto in due modi. Il primo tiene conto dei numeri. Fino a quando il cattolicesimo era la confessione di quasi tutti gli italiani, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole poteva essere considerato una sorta di legato storico, consolidato dalla tradizione e dal consenso, attivo o passivo, di una larga maggioranza. Ma nel momento in cui i musulmani sono grosso modo un milione e l’Islam è ormai la seconda religione della società italiana, mi sembra difficile negare agli uni ciò che viene concesso agli altri. Non so se il cardinale Renato Raffaele Martino esprima interamente la posizione della Chiesa, ma il fatto che il presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace approvi l’insegnamento del Corano nelle scuole della Repubblica è un passo in questa direzione. Il secondo elimina il problema sopprimendo l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche della penisola. Immagino le difficoltà. La Conferenza episcopale protesterà. I corifei delle «radici cristiane» sosterranno che gli italiani rinuncerebbero in tal modo alla loro identità. I diplomatici ricorderanno che occorre modificare il Concordato, vale a dire avviare una procedura negoziale terribilmente lunga e complicata. Eppure questa sarebbe probabilmente la soluzione migliore. […]
Il testo integrale dell’intervento di Sergio Romano, in risposta a una lettera di Giulio Cesare Vallocchia, è stato pubblicato sul sito del Corriere della Sera