Il Gran Muftì del Cairo è uno dei massimi giureconsulti islamici. È nominato direttamente dal regime, dunque ha un accesso diretto al raìs Mubarak. E sovrintende alla dottrina islamica in un Paese, l’Egitto, dove da un decennio il boom del velo pare segnalare una travolgente rimonta della religione e della religiosità. Per tutto questo sarebbe ragionevole attendersi che la fatwa del Gran Muftì Ali Gomaa contro le statue, o più esattamente contro l’atto di scolpire, provochi almeno cortei diretti ad atelier degli scultori egiziani, se non assalti alla Sfinge e irruzioni di martellatori nel Museo nazionale per ridurre in briciole le maschere dei faraoni. Tanto più perché nell’occasione Gomaa ha ricevuto manforte da un paio di teologi di chiara fama, tra i quali l’influentissimo tele-predicatore della tv al-Jazeera, Qaradawi, tutti convinti da quel hadith, o Detto del Profeta, che recita: “Nel giorno del Giudizio gli scultori saranno tra coloro che subiranno i maggiori tormenti”. Si può dubitare delle parole attribuite a Maometto? Quando si tratta di hadith, si può. E infatti la fatwa del Gran Muftì, in teoria un parere vincolante per tutti i musulmani, non ha prodotto alcun effetto. Nulla di nulla. Sono passate tre settimane e non v’è stato un solo atto di ostilità verso scultori o sculture. Beninteso nessuno può escludere che un domani un gruppuscolo terrorista prenda troppo sul serio i precetti del Gran Muftì. Ma in quel caso sarebbe deprecato dall’intero Paese, soprattutto se attentasse a monumenti d’epoca egizia, che nella percezione collettiva appartengono all’identità nazionale, e comunque attirano, insieme ai turisti, un fiume di valuta indispensabile all’economia. […]
Il testo integrale dell’articolo di Guido Rampoldi è stato pubblicato sul sito di Repubblica