[…] Comprendo le posizioni della Chiesa Romana, ma non credo che gli Stati moderni possano lasciare che il problema della morte, nelle società contemporanee, venga affrontato esclusivamente in termini religiosi. La vita si allunga, le popolazioni invecchiano, la scienza consente ai medici di tenere lungamente in vita uomini e donne che hanno perso in tutto o in parte le loro facoltà intellettive (pensi a Sharon), e le spese sanitarie stanno diventando una delle partite più onerose dei bilanci statali. In passato, il problema di un malato terminale, afflitto da dolori intollerabili, veniva risolto saggiamente e discrezionalmente dal medico curante. Bastavano un cenno, un’occhiata, un sospiro perché il medico e i congiunti si mettessero tacitamente d’accordo sull’opportunità che la vita, come si diceva allora eufemisticamente, facesse il suo corso. Oggi la strada della discrezionalità è diventata impraticabile per due ragioni. In primo luogo il medico non è più, nella maggioranza dei casi, il rispettato confidente e consigliere della famiglia. È un funzionario della Sanità pubblica, costretto ad applicare la prima norma di qualsiasi manuale burocratico: attenersi alle regole. In secondo luogo tutte le società contemporanee sono afflitte dalla patologia del «legalismo» e dalla convinzione che ogni questione possa essere sollevata di fronte a un tribunale. I medici americani sanno che ogni paziente è un potenziale querelante e contraggono polizze d’assicurazione contro ogni possibile «incidente del mestiere». E qualcosa del genere, se non sbaglio, sta accadendo anche in Europa. Se vogliamo che il problema della morte venga trattato con un po’ di tradizionale buon senso occorrono ormai norme, dichiarazioni, formulari, testimoni, notai. Credo che entro i prossimi dieci anni tutti i maggiori Paesi dell’Occidente adotteranno una legge sulla «buona morte» e forniranno ai medici il quadro giuridico di cui hanno bisogno per evitare di finire in tribunale.
Ma queste leggi, d’altro canto, presentano un rischio. Non penso soltanto alla possibilità che un governo le utilizzi per imporre una particolare politica eugenetica. Penso anche e soprattutto all’uso che potrebbero farne i congiunti per sbarazzarsi di un «peso morto» che consuma tempo e denaro o trattiene per sé una fortuna impazientemente attesa dai suoi eredi. Siamo stretti, quindi, fra due esigenze contraddittorie. Dobbiamo risolvere un problema diventato ormai quantitativamente rilevante. Ma dobbiamo evitare che la legge, una volta adottata, venga utilizzata per fini inconfessabili e inaccettabili. Prima di arrivare alla formula giusta occorrerà valutare l’esperienza di coloro che si sono già avventurati su questa strada. Mi chiedo, tuttavia, se la soluzione migliore, tanto per cominciare, non sia quella del testamento biologico di cui ci siamo occupati più volte in questa rubrica: un documento in cui ogni persona possa esprimere le proprie «ultime volontà» e scegliere il momento in cui le cure dovranno essere interrotte.
L’intervento di Sergio Romano è stato pubblicato sul sito del Corriere della Sera