[…] Il Papa tedesco non parla mai di antisemitismo. Eppure è un veleno fluito attraverso secoli di storia. Negli anni Trenta il primate polacco August Hlond (candidato alla beatificazione) proclamava: “Il problema ebraico resterà aperto finché ci saranno degli ebrei… Sono l’avanguardia dell’empietà, del bolscevismo, della sovversione”. Si può dimenticarlo? Si può ignorare la virulenza dell’antisemitismo popolare diffuso in Germania e in Austria ben prima che l’imbianchino Hitler salisse al potere? E poiché un interrogativo tira l’altro: fino a che punto Ratzinger può mettere tra parentesi l’antigiudaismo cristiano che ha nutrito l’odio anti ebraico sfociato nella “solozione finale” perseguita dal nazismo? Sarebbe sbagliato, con una persona di livello intellettuale come Benedetto XVI, semplificare il suo discorso. Ma proprio perché è un pensatore sottile, non guardare le sfumature dei suoi interventi o le sue omissioni sarebbe fargli torto. Fatto sta che la parola antisemitismo non c’è e l’unico accenno alla Shoah è stato inserito all’ultimo momento poche ore prima di andare ad Auschwitz. Fa problema anche la descrizione del popolo tedesco come fuorviato dal nazismo, manipolato da una banda di criminali, in ultima istanza ingannato. Lo si voglia o no, finirà per essere letto come una forma di deresponsabilizzazione. Nessuno pensa certo a colpe collettive, ma l’impressione è che l’intervento di Auschwitz rimuova mezzo secolo di riflessione autocritica in Germania e nella Chiesa sul ruolo e la responsabilità che ciascuno ha potuto avere nell’aprire la strada al sistema sfociato nella macchina di morte dei lager. «Abbiamo fatto abbastanza per impedire l’ascesa del nazismo? Abbiamo tollerato in qualche modo o favorito l’estendersi dell’antigiudaismo”. Sono due delle domande cruciali che in Germania e nella Chiesa circolano da decenni. Non se ne trova traccia nel pellegrinaggio del pontefice tedesco ad Auschwitz. Poiché tutti conoscono la ferma posizione contro l’antisemitismo di Ratzinger e il suo profondo legame con l’ebraismo, porsi questi interrogativi è ancora più giustificato. È come se ci fossero blocchi di Storia che qualcuno nella genarchia cattolica fatica a elaborare. Come se dinanzi alla radicalità dell’Olocausto ci fosse in certi strati ecclesiastici la tentazione di inserire il progetto nazista di liquidazione degli ebrei nel novero più ampio delle “altre persecuzioni” contro le vittime più diverse. Alla fine emerge la sensazione che la coraggiosa stagione wojtyliana degli atti di pentimento sia finita per davvero.
Il testo integrale dell’articolo di Marco Politi è stato pubblicato oggi su Repubblica