Un corpo di donna clinicamente morta tenuto artificialmente in vita per dare una chance di svilupparsi e nascere alla bambina di cui era incinta. Una bambina a forte rischio di sopravvivenza e di integrità psicofisica, data l’immaturità dello sviluppo in cui si trovava al momento del parto. Una bambina che è divenuta tale, perché fortemente voluta dal padre e dai nonni e per intermediazione di una tecnica medica sofisticata. Ma che si è sviluppata da feto in bambina nella solitudine di un corpo senza più intenzionalità e sentimenti, tenuto in vita da macchine, ma non capace di mediare e trasmettere voci e emozioni. […] Quando monsignor Sgreccia dichiara che l’organismo materno e il feto sono un’unica entità, e perciò è giusto tener artificialmente in vita il primo per dare una chance al secondo, sottolinea solo una ovvietà biologica, trascurando la dimensione di relazionalità e intenzionalità che sottende quella «unità» e identifica l’essere umano. Inizia a formarsi proprio nella gravidanza, nella relazione che la donna incinta intrattiene con l’essere che porta con sé, nei desideri o rifiuti – propri o altrui – di cui lo fa oggetto e che gli comunica. In altri termini, la donna incinta non è solo un utero. […] Forse quella madre avrebbe scelto di essere trattata così. E comunque così hanno deciso coloro che la amavano – gli unici, forse, titolati a farlo. Quella bambina, se sopravvivrà come le auguriamo, sarà molto amata. Ma tutto ciò è avvenuto e avverrà proprio perché la vita umana non è solo un dato biologico, bensì, nel bene e nel male, soprattutto un prodotto delle intenzionalità e delle relazioni.
Il testo integrale dell’articolo di Chiara Saraceno è stato pubblicato sul sito della Stampa