«Colpo di stato islamista». L’editoriale del quotidiano Cumhuriyet non si concede dubbi. È il 18 maggio 2006. Il giorno prima, un avvocato di 28 anni era entrato nell’edificio del Consiglio di Stato di Ankara e – al grido di Allahuakbar – aveva svuotato il caricatore della sua pistola su cinque magistrati. Il giudice Mustafa Yucel Ozbilig, reo di aver confermato il divieto per le donne di indossare il velo nei locali pubblici turchi, moriva poco dopo. L’evento, che ha suscitato una vasta eco anche al di là dei confini turchi, ha esacerbato uno scontro che scuote da diversi mesi il paese anatolico: da una parte, i difensori della tradizionale laicità di stampo kemalista; dall’altra, il Partito della Giustizia e lo Sviluppo (Adalet ve Kalkinma Partisi, Akp) del premier Recep Tayyip Erdogan, accusato di mirare surrettiziamente a un’islamizzazione progressiva della società. […] I secolaristi sottolineano i tentativi dell’Akp di rivedere i tabù laici della Turchia (dalla volontà di permettere il velo in scuole, università e uffici governativi al desiderio di criminalizzare l’adulterio, tutti per il momento miseramente falliti). I membri del partito minimizzano e dicono che è in atto un attacco contro di loro, in vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno, in cui la formazione di Erdogan potrebbe eleggere – grazie alla comoda maggioranza di cui gode in Parlamento – uno dei suoi alla massima carica dello stato. In questo contesto complesso, l’Akp è sotto gli occhi di tutti: gli stessi businessmen di Istanbul e Ankara, che nelle elezioni del 2002 gli avevano fornito un certo appoggio, non gradiscono troppo alcune mosse ed esternazioni di esponenti del partito. «Dopo essere rimasti a lungo in silenzio, i secolaristi stanno rialzando la voce. È un movimento di massa, con persone di diversa provenienza ed estrazione sociale che si ritrovano per condurre una battaglia comune», assicura Ural Akbulut, preside della Middle East Technical University (Metu), gigantesco campus universitario di Ankara che rappresenta una delle roccaforti dell’opposizione all’Akp. L’accademico è assolutamente a favore del divieto del velo nelle università («permetterlo equivarrebbe ad aprire le porte del campus agli islamisti») e denuncia il tentativo del governo di assumere il controllo del settore educativo («volevano destituire tutti i dirigenti universitari e sostituirli con persone di loro fiducia»). Il suo giudizio sull’Akp è senza appello: «Sono pericolosi. La loro agenda politica è influenzata dalla religione». […] Il problema è che l’Europa non sembra guardare alla Turchia. Dopo il fallimento dei referendum sulla Costituzione in Francia e Olanda, il partito anti-Ankara a Bruxelles guadagna sempre più consensi. Tra chi agita lo spauracchio islamico, chi avanza ragioni geografiche («al di là del Bosforo è Asia»), chi teme l’arrivo di 70 milioni di nuovi cittadini, i 25 sembrano sempre più riluttanti ad accettare il paese anatolico all’interno del loro club esclusivo. Con un rischio concreto: a furia di vedersi chiudere la porta in faccia, la Turchia potrebbe stancarsi. E non è escluso allora che l’ala più oltranzista dell’Akp prenda il sopravvento, acutizzando lo scontro con il fronte secolare e avvolgendo il paese in una crisi politica che potrebbe avere effetti devastanti per la stessa Europa.
Il testo integrale dell’articolo di Stefano Liberti è stato pubblicato sul sito del Manifesto