Tre mosse in una. L’incursione dell’Hezbollah con il rapimento di soldati israeliani va oltre la pura sfida militare in un’area sempre calda. E apre scenari dagli esiti incerti quanto pericolosi non solo per il conflitto sul confine ma per l’intera regione. L’assalto dei militanti libanesi pro-iraniani assume un particolare significato agli occhi della comunità musulmana e araba. Gaza è assediata da settimane, gli israeliani martellano senza pietà alla ricerca del soldato rapito, i palestinesi si impegnano in un braccio di ferro che può provocare solo danni. Ma nelle capitali dello scacchiere nessuno muove un dito. La storia è la solita. I vari raìs sbraitano, gridano, usano la carta palestinese in chiave propagandistica però non fanno nulla di concreto. E l’unico che ci prova – l’Egitto – vede svanire la sua mediazione per le trame dei radicali. Alla fine i palestinesi restano – anche per colpa loro – senza amici. Ed ecco che arrivano gli Hezbollah. Pensate al ritorno di immagine: i militanti islamici del Libano sono gli unici a dimostrare solidarietà concreta con un’azione spettacolare che li lega – operativamente e politicamente – ai «fratelli» di Hamas. Un sostegno già dimostrato durante l’intifada attraverso l’invio di fondi, la trasmissione di istruzioni per migliorare le bombe, l’istigazione a colpire. Nel 2004 oltre 68 attacchi nei territori sono stati innescati dai miliziani libanesi. In Palestina la bandiera gialla dell’Hezbollah è un simbolo di resistenza. Una percezione opposta a quella che oggi hanno molti libanesi. La provocazione dell’Hezbollah rischia di trascinare il Libano nell’abisso. Faticosamente ricostruito, il paese prova a respirare una vita normale, ma è destino che debba pagare per colpa di altri. […]
Il testo integrale dell’articolo di Guido Olimpio è stato pubblicato sul sito del Corriere della Sera