Mai più in nome del padre

In questi ultimi mesi Cosenza appare come una città attraversata da un diffuso stato confusionale. La vicenda di Padre Fedele ha seminato un virus, che agisce ancora in maniera latente e solo a sprazzi si conclama. Ogni presa di posizione netta, innocentista o colpevolista, appare come un’ostentazione, una forzatura. Non appena il caso è esploso nonostante i proclami di innocenza, di colpevolezza, sembrava che la gente non volesse lasciarsi attraversare dal dubbio. L’ambivalenza, la sospensione, la contraddittorietà dei sentimenti e delle valutazioni, sono di fatto di una complessità pubblicamente insostenibile. […] Siamo stati e siamo tutt’ora messi a dura prova, nonostante lo sbandamento iniziale, il frastornante evento, lo stupore, l’incredulità. Tali sentimenti sono stati legittimamente accolti agli esordi del caso. Oggi i contorni di questa vicenda, sul piano mediatico, troppo spesso, si definiscono in maniera unidirezionale: “ Fedele è Fedele, innocente o colpevole che sia”. La macchia della colpevolezza appare sbiadita di fronte al fulgore della fede in lui. Ma di che tipo di fede parliamo, e poi, si tratta veramente di fede? La fede in-Fedele e nel suo agire? È quest’ultima che trascina, soprattutto giovani e uomini forti a proclamare l’innocenza del frate? […] Mi sembra di stare di fronte ad una collettività girata di spalle, che scuote la testa, e che sostiene con fatti e parole retoriche, nonostante il morto gli sia disteso davanti, che non è vero, che non è morto, che è vivo. Ed hanno pure ragione, perché egli è vivo (concedetemi la metafora che vado esplicitando), e con lui è viva e vegeta questa cultura poco paesana e poco metropolitana, che la medicina dell’oblio, di una forte miopia autoaddotta, la assume per autoriprodursi, per riconfermarsi nel suo assetto di comportamenti virili e selvatici, razzisti e fuorilegge. […] E le figure dei molestatori, stupratori, adescatori non sempre coincidono con quelle proposte dai mass media e cioè con uomini, provenienti da altri paesi o con loschi figuri italiani, appartenenti a reti criminali di vecchie e nuove generazioni, praticanti lo sfruttamento della prostituzione. Troppo spesso questi signori sono italiani, sono concittadini, sono compaesani, sono coinquilini, sono conviventi. Ci sono invischiati tanti padri di famiglia e tanti bravi ragazzi figli di famiglia. Gli autori delle violenze e degli stupri sono i più o meno giovani padri dei bambini che queste donne hanno con loro concepito, sono prodighi datori di lavoro, sono gli amici comprensivi, sono i nuovi compagni. […] L’Oasi francescana è deontologicamente un’altra cosa, è luogo dell’accoglienza, dell’ascolto, luogo dell’aiuto, dell’assistenza. Pertanto è luogo dove è fortemente diversificata, impari, la posizione dei soggetti che vi lavorano e vi transitano. È luogo che esiste in virtù di un’aprioristica disparità sociale, tra persone spesso nullatenenti, al di fuori del proprio corpo e dei propri sentimenti, e persone stanti in condizioni di poter offrire garanzie di sopravvivenza, di fare all’altro la carità di sopravvivere. Una frontiera dell’umanità, un nucleo metaforico delle dinamiche sociali, come pure del rapporto fra i sessi, che oramai nessuno più scinde dalla sociologia e dall’economia, mentre prima a tenerli uniti erano solo le donne. […]
L’articolo completo di Anna Petrungaro è raggiungibile su Womenews.net

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