[…] L’identikit dei ventuno arrestati a Londra, musulmani fisicamente residenti nel Regno Unito ma spiritualmente legati alle madrasse della patria Karachi, riporta l’Italia di fronte al rebus che dall’11 settembre 2001 tormenta la coscienza occidentale: l’integrazione è la cifra della società globale o il cavallo di Troia del terrorismo? Perché ancora una volta, dopo i blitz seguiti agli attentati del 7 luglio 2005, gli agenti di Scotland Yard hanno fatto irruzione in villette stile working class dove vivevano giovani uomini in tutto simili ai loro connazionali inglesi se non per il desiderio in sonno di farsi esplodere a bordo di un aereo in partenza da Heathrow recitando sure del Corano. «Ogni Paese fa storia a sé», replica all’unisono l’Islam italiano, eccezionalmente unito nel distinguere il modello multiculturale made in Britain dalle nostre balbettanti prove di dialogo con l’immigrazione. Una precisazione che pare quasi un’autocritica per la risposta di una parte della comunità musulmana alla fiducia del governo di Downing Street. Pare, perché poi le sfumature sono molte, lievi variazioni di tono in cui può insinuarsi la zona grigia e infida del giustificazionismo. «Saranno Dante e Petrarca a proteggere l’Italia dalla mina impazzita del multiculturalismo all’inglese» sostiene Osama al Saghir, ventitreenne d’origine tunisina e presidente dei Giovani musulmani in Italia (Gmi). Un’affermazione solo in apparenza bizzarra: «La cittadinanza è condizione necessaria ma non sufficiente per l’integrazione. Avete visto la biografia di Mohamed Atta, il kamikaze dell’11 settembre, o di quelli del 7 luglio? Gente che magari andava in discoteca, ma ignorava Shakespeare, la Magna Carta, la storia del Paese ospite». […] L’educazione. Parola chiave anche per il marocchino Khalid Chaouki, redattore di Ansamed, autore del saggio «Salaam, Italia» e musulmano under 30 come, drammaticamente, la maggior parte degli aspiranti suicidi. «Ho pensato tante volte che quei ragazzi hanno la mia età», osserva Chaouki. «Potrebbero coltivare ambizioni, futuro, e invece aspirano al martirio. Sono spesso ignoranti, impreparati, facili vittime della propaganda dei media arabi che soffiano sul fuoco delle guerre accese dall’Occidente e della malìa dei predicatori di jihad». […] Distinzione dunque, perché «il delirio di venti pazzi non può pregiudicare la vita di migliaia di persone oneste», e autocritica. Lo dice da anni Souad Sbai, presidente dell’Associazione donne marocchine e direttrice del mensile «al Magrebiya», «le religioni vanno rispettate e difese ma le moschee devono essere luoghi aperti con imam controllati. L’Italia non può cedere ai seminatori d’odio nascosti talvolta dietro organizzazioni altisonanti». Lo ripete a gran voce lo scrittore iracheno Younis Tawfik, che ha appena pubblicato con Bompiani il romanzo «Il profugo»: «L’integrazione va costruita con un lavoro strategico, evitando l’emarginazione diversa e simmetrica dei ghetti inglesi o parigini, ma chiedendo in cambio responsabilità, lealtà, partecipazione». Tutti d’accordo su un po’ d’autocritica, allora? In teoria. Perché Mohamed Nour Dachan, leader dell’Ucoii (Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia), la sigla che controlla buona parte delle nostre moschee, giudica gli arresti di Londra «un diversivo»: «Funziona sempre così, basta una notizia che metta all’indice i musulmani per far dimenticare i massacri compiuti in Libano e Palestina». […]
Il testo integrale dell’articolo di Francesca Paci è stato pubblicato sul sito della Stampa