La lunga marcia delle donne pakistane

Sarebbe potuto succedere anche in Pakistan. Non c’è dubbio: la sorte toccata a Hina Saleem in Val Trompia è la stessa che tocca a decine di giovani donne pakistane; anche là un «consiglio di famiglia» avrebbe potuto decretare la morte di una ragazza che sceglie un fidanzato contro il volere della famiglia. […] Da almeno un quarto di secolo sono attivi in Pakistan movimenti di donne che rivendicano pari diritti di fronte alla legge, e spazio per le donne nella società. Almeno dal 1979, settembre, quando alcune centinaia di donne manifestarono in piazza a Lahore, in Punjab, per protestare contro l’islamizzazione forzata. Il presidente, generale Zia ul Haq, aveva appena fatto approvare le Ordinanze Hodood, complesso di leggi ispirate alla shari’a (la legge islamica) in materia di morale e statuto personale delle donne. C’era la legge marziale, e proprio in quei giorni veniva impiccato l’ex primo ministro Ali Bhutto (destituito da Zia ul Haq due anni prima): non fu una manifestazione facile. Si è formato allora un coordonamento, il Women’s Action Forum, che tuttora riunisce decine di gruppi di avvocate, attiviste sociali e collettivi di donne pakistane. Parte del problema, spiegano, sono le leggi emanate allora dal generale Zia ul-Haq (che aveva bisogno del consenso delle forze religiose per legittimare il suo potere). Come le ordinanze Zina: prescrivono galera, pene corporali o lapidazione per «crimini» sessuali come fornicazione o adulterio (e una donna che osi denunciare uno stupro spesso finisce accusata di adulterio). Poi ci sono le leggi che dimezzano il valore della testimonianza di una donna di fronte alla legge, o il diritto di famiglia che privilegia i figli maschi nell’eredità e i mariti nell’affido dei figli. Un altro regalo fatto allora alla destra religiosa è stata l’introduzione di una giustizia parallela, la Shari’a Court, che può invalidare ogni norma o legge «contraria all’islam». Di tutte le leggi islamizzanti emenate allora, solo quelle relative alle donne hanno avuto un vero impatto giuridico e sociale. Tutte restano in vigore: i governi civili degli anni ‘90 non hanno voluto o potuto cambiarle, sia perché serviva la maggioranza dei due terzi, sia perché il consenso delle forze religiose continuava a servire. E questo resta vero nel Pakistan di oggi […] Alle leggi ispirate alla shari’a che discriminano le donne sul piano legale si aggiungono però tradizioni che nulla hanno di coranico. I «delitti d’onore» ad esempio sono aumentati negli ultimi quattro anni, secondo le cifre diffuse qualche mese fa dal ministero dell’interno: 4383 casi tra il gennaio 2001 e il docembre 2004. Le cifre sono relative – a volte imputati di omicidio invocano l’onore per ottenere attenuanti, e molti casi «veri» non sono segnalati. Poi c’è la «giustizia del clan», forse la maggiore fonte di violenza sulle donne. Alcuni casi negli ultimi anni hanno sollevato il problema. Il più noto è avvenuto nel 2002 in un villaggio del centralissimo Punjab, ed è arrivato in tribunale nel 2005. La vittima è una donna, la maestra del villaggio, violentata da quattro uomini per decisione del consiglio degli anziani che concedeva così a un certo clan di «vendicare» un torto subìto da parte del clan di lei. Una catena di mostruosità: risultò poi che il «torto» (una relazione illecita) da vendicare non era mai stato commesso e che il clan «offeso» era quello dei proprietari terrieri più potenti della zona. Sottinteso il disprezzo per la donna, umiliata e violata per soddisfare l’onore di una famiglia. Quel caso è diventato famoso anche perché la vittima, Mukhtaran Mai, si è ribellata alla legge dei clan: ha denunciato, ha testimoniato in aula, ha chiesto la condanna dei suoi stupratori, si è messa a lavorare con gruppi di avvocate e di attiviste per i diritti delle donne. In quell’occasione (e in altre), fior di giuristi e di editorialisti hanno scritto che la «giustizia» dei clan non è né legale, né islamica. La Commissione per i diritti umani in Pakistan (Pchr), organismo indipendente, denuncia stupri e delitti basati su «sentenze» senza alcuna legalità, fondate su tradizioni feudali. Spesso però le jirga invocano l’islam. E questo spiega l’ambivalenza delle autorità: quando il caso di Mukhtaran Mai fa scandalo, parlano di ristabilire la legalità. Ma al dunque esitano , per paura di «offendere i sentimenti religiosi popolari». Gli stupratori di Mai sono stati condannati in primo grado, ma assolti in appello… E la battaglia delle donne pakistane continua.
Fonte: IlManifesto.it

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