Parole di donne su Hina. Allineate alla tradizione

La madre: «Hina non è era una buona musulmana. Non è vero che mio marito la piacchiava». Una coetanea di Hina: «Il padre non doveva arrivare a tanto. Ma anche lei sbagliava. Aveva dimenticato le sue origini, voleva vivere all’occidentale. Questo non è giusto». Per dieci giorni nessuna donna pachistana aveva preso la parola sull’uccisione di Hina Saleem. Il silenzio è stato rotto e le parole – lette sui giornali di ieri – vanno in senso opposto a quello sperato.
La madre Bushra, rientrata dal Pakistan, recita fino in fondo la sua parte, aderisce senza smagliature alla cultura del clan, non versa lacrime, almeno di fronte ai carabinieri di Villa Carcina da cui si reca per «denunciare» il marito che ha ucciso la figlia. Le spiegano che la sua denuncia non serve. «Da noi si usa così», replica. […] Hina era scappata più volte da casa, aveva denunciato tre volte il padre per maltrattamenti, aveva ritrattato, si era messa con italiano. Insomma, Hina aveva portato il disonore e la vergogna sulla famiglia dei Saleem. Il padre l’ha punita. E Bushra sembra assolverlo. Non l’assolvono le quattro giovani pachistane-bresciane che domenica hanno preso la parola in un incontro con la stampa. Organizzato dall’associazione islamica Muhammadiah per dimostrare che le donne pachistane hanno una testa e sono libere di dire in pubblico quel che pensano. Il punto è che quel che pensano sul delitto d’onore di Sarezzo combacia con il giudizio espresso nei giorni scorsi dagli esponenti maschi dell’associazione: ferma condanna del delitto e di un padre che non ha saputo educare come si conviene una figlia. Hina, al massimo, andava allontanata, disconosciuta dalla famiglia, non certo sgozzata. «Recitano» queste quattro giovani donne istruite e pacate […] Per un verso, sono emancipate, non vivono segregate in casa, studiano e sperano di trovare un buon lavoro. Per un altro, accettano qietamente i matrimoni combinati, perché «prima della felicità individuale viene quella delle famiglie», ricavano dalla famiglia, dalla tradizione e dalla religione gli insegnamenti su quel che è giusto (portare il velo, rispettare i genitori, non fumare) e quel che è sbagliato fare («vivere all’occidentale»). Mettere in pratica quegli insegnamenti, affermano, «non è un peso». Sarà così, ma dispiace sentire quattro coetanee dire che «anche» Hina voltando scandalosamente le spalle alle sue origini ha «sbagliato». Consola, quindi, sapere che qualcuno non si «vergogna» di una coetanea come Hina. E’ Zara che firma a nome di un gruppo di «ragazzi pachistani musulmani» una lettera pubblicata dal Giornale di Brescia. Critica i matrimoni combinati come un disvalore e domanda: perché la comunità non si interroga sul perché Hina è stata costretta a scappare di casa? Dov’era la comunità quando queste cose succedevano? Quella lettera, dice Aurora Sorsoli dell’Università delle donne di Brescia, «è un sasso nello stagno dell’omogeneità». Piccolo, ma importante, ricorda che «prima vengono le persone, poi le comunità». Guai, dice, «se noi italiani mettiamo tutti i pachistani nelle stesso sacco dell’appartenza e se loro, per reazione difensiva, in quel sacco ci si infilano». Organizzando corsi per mediatrici culturali, Aurora ha imparato che i veri passi avanti nel lavoro complicato del vivere insieme richiedono «un’esperienza, una relazione duale». Pur «delusa» dalla flebile presa di parola delle donne pachistane, resta convinta che «interporre una donna» sia il modo migliore per risolvere i conflitti tra generazioni e tra nazionalità diverse. Non se la sente di trinciare giudizi sul comportamento della madre di Hina. «La prima cosa che ho pensato è: fa così perché ha altre figlie, più per opportunismo che per convinzione». Oriella Savoldi, sindacalista e femminista bresciana, l’uccisione di Hina mette la «libertà femminile» al centro del rapporto con i migranti. «Far finta che non sia così, per non dare spago alla destra, è un relativismo che stinge nell’indifferenza».

Fonte: IlManifesto.it