Da quando il Consiglio dei ministri ha varato il disegno di legge sulla cittadinanza è come se si fosse aperto il vaso di Pandora. Si accavallano commenti e riflessioni: come si fa a certificare l’«italianità» di un immigrato? Chi può accedere in modo permanente ai pieni diritti? Fino a che punto lo Stato può esigere una «prova di fedeltà»? E poi, fedeltà a che cosa? Ne abbiamo parlato con Marco Revelli, sociologo e docente universitario. Ma soprattutto «testa pensante» della sinistra che non teme di rompere gli schemi. […]
Con il crollo degli stati nazione, secondo lei, crolla anche la possibilità di imporre dei valori universali? Allora ha ragione chi lancia l’allarme contro il relativismo assoluto.
L’occidente vive senza alcun dubbio un vuoto di valori. E’ davvero il simbolo del nichilismo contemporaneo. Ma la crisi dell’occidente non nasce tanto dal suo relativismo, quanto piuttosto dal fare del proprio stato attuale l’unica possibile e desiderabile condizione, esistenziale e culturale. Nel costruire una specie di fondamentalismo del nulla. L’occidente oggi è in crisi perché assolutizza la propria condizione, non perché ne riconosce il carattere fragile e debole. Se lo riconoscesse, d’altronde, non pretenderebbe di imporre se stesso come modello a tutto il mondo. Invece, l’occidente – privo di un’identità definita – si nutre di solipsismo e autoreferenzialità. Su questa base è del tutto incapace non solo di vedere e rispettare le altre culture, ma anche di fare quel minimo esercizio, consigliato da Amos Oz, anche se poi scarsamente praticato dai suoi stessi fautori: guardare se stessi con gli occhi degli altri.
Posto che riuscissimo a riconoscere interamente le altre culture, come è possibile organizzare la convivenza?
La prima risposta che mi verrebbe di dare, così, d’emblée, sarebbe: la condizione per la convivenza sul nostro territorio è l’accettazione da parte di tutti della nostra Costituzione. Mi sembrerebbe la via maestra: chi vuole la pienezza dei diritti sul nostro territorio, deve impegnarsi a rispettare quella Carta…
Un’adesione formale?
E’ questo il punto. Quando andiamo poi a tradurre questo principio in un dettato normativo il discorso diventa problematico. Anche il migliore strumento si presta a usi perversi. Discriminatori o umilianti. Si istituiscono cancelli con dei guardiani che sottoporranno l’altro a degli esami in base ai quali diranno chi avrà accesso e chi no. Con degli effetti che se intravvedessimo fin d’ora ci farebbero inorridire. Come quella sorta di esami che fanno in Olanda e mi pare, in prospettiva, vorrebbe applicare anche la Germania.
L’obbligo a visionare filmati in cui si mostrano effusioni tra due persone dello stesso sesso, ad esempio.
Esattamente. Cose che da altre culture e, d’altra parte, dalla nostra stessa cultura solo pochi anni fa erano vissute come oltraggio. Con quale diritto noi sottoponiamo qualcuno a un oltraggio?
Ad esempio in nome di quei valori che consideriamo universali, come l’uguaglianza e la parità tra i sessi.
Sono valori a cui, ovviamente, non rinuncerei mai. Ma il problema rimane la forma, cioè la legge: non decidiamo di affermare quei valori universali da un punto di vista discorsivo, attraverso un tentativo di convinzione o argomentazione, bensì attraverso la legge. […]
Fuor di metafora?
Mi rendo conto che il passaggio a forme meno razionalizzate possa apparire un arretramento della nostra civiltà giuridica. Ma perché non pensare a delle istanze di giudizio meno formalizzate, più aperte alla sperimentazione culturale, alla ricerca di soluzioni condivise? Non so come chiamarle: «Autorità etiche»? Non è che la definizione mi piaccia molto. O se si preferisce «culturali», ma che insomma dirimano conflitti di valori inerenti alla diversità tra le culture?
L’obiezione è scontata: chi potrebbe essere un’«Autorità etica»?
E’ chiaro, questo discorso apre tutto un versante su chi ha l’ultima parola sui «conflitti di valore», o anche solo la penultima. Io mi limito a dire che occorrono delle nuove pratiche che regolino i rapporti in modo flessibile, così da essere più vicini al caso per caso. […]
L’intervista completa al sociologo Marco Revelli è raggiungibile sul sito del Manifesto