Torno da lunghissime settimane trascorse nel sud del Libano, e ho voglia di dire due o tre cose su quella tragedia e su come è stata raccontata. Nessuna voglia di rintuzzare polemiche ferragostane, quanto piuttosto provare a riflettere. Due le questioni che sento di dover premettere, nella forma di «lettera al direttore», di sfogo personale e quindi sottratto a qualsiasi vincolo di scuderia. Autodifesa, diciamo.
1. Non c’è accusa più infamante per chi è figlio di una cultura democratica e antifascista nata dalla Lotta partigiana e dalla Resistenza, di quella di antisemitismo.
2. Non c’è accusa più scontata, se ti capita di elevare in qualche modo critiche all’operato del governo israeliano in carica, di quella diretta o indiretta di antisemitismo.
Vorrei provare a ribellarmi a questa trappola che non aiuta nessuno. Non aiuta me, rotellina occasionale sul campo della notizia, a fare meglio i miei resoconti, non aiuta la responsabilità di chi vuole proporre analisi utili, ad evitare la tentazione della tifoseria.
Tutto quanto accade attorno ad Israele, sembra destinato a suscitare sensibilità e reazioni forti. C’è una frase del grande intellettuale arabo palestinese Edward W. Said, recentemente scomparso, che credo esprima meglio di qualsiasi altro ragionamento lungo e complicato, la tragedia che si sta consumando da sempre in Palestina e in Israele. «La tragedia di essere vittime di un popolo vittima». Due tragedie in una. La tragedia del popolo palestinese senza Stato e spesso senza terra, vittima di uno stato, quello israeliano, e di un popolo, gli ebrei, contro cui il nazismo ha consumato sessant’anni fa il peggiore dei crimini possibili: il tentativo di sterminio. Essere «vittima» delle «vittime», ti toglie quasi la speranza, ti riduce le solidarietà attorno, trasforma in «antisemitismo» ogni critica legittima allo Stato d’Israele. La trappola del conflitto arabo-israeliano in Palestina, tiene prigioniero il mondo da decenni, e nessuno sembra oggi neppure in grado di immaginare come e quando se ne potrà uscire con una pace che ha come condizione un po’ di giustizia assieme al diritto di esistere.[…] si può discutere sulla politica di Israele, e sulla difesa armata di Israele, e sulla proporzionalità della sua reazione anti Hezbollah in Libano, senza finire sotto schiaffo con accuse sottintese di antisemitismo che feriscono innanzitutto la tua coscienza democratica? Alle critiche in buona fede, credo sia dovuta una risposta sui fatti, e non attraverso anatemi di segno opposto. […+ La questione dell’equilibrio dell’informazione italiana su quella tragedia forse riguarda altro. Che sia un problema di nuovo equilibrio imposto dai fatti della guerra, rispetto ad un «disequilibrio» diffuso e generalizzato che s’era imposto per schieramento nelle settimane precedenti? Forse anche per le guerre si vorrebbe far valere una sorta di «Par condicio» fra le parti in conflitto. E’ accaduto. Un pezzo da Gerusalemme, uno da Beirut. […]