Licu dice all’amico: “Guarda come è bella!”. “Sì è veramente bella, sei felice eh?”. “Certo che lo sono: bisogna ringraziare mia madre”. “Quanti anni ha?”. “Diciotto”. “E se poi non ti piace?”. “Se non mi piace che devo fare? La prendo comunque… Io non decido niente per rispetto a mia madre e alla mia famiglia… Lascio decidere loro”. C’è una foto tra le mani di Licu, e sulla foto c’è una bellissima ragazza: si chiama Fancy ed è nata in Bangladesh, come il futuro sposo. Un estraneo. Un’estranea. Che diventeranno marito e moglie perché così hanno deciso le loro famiglie; perché è così che usa nel loro Paese. Qui, dove si svolge la scena, invece è Italia: periferia di Roma, interno di una stanza nel quartiere Torpignattara. Licu di bengalese non ha né il modo di vestire, né il taglio di capelli, né le maniere: in sette anni il suo tentativo di occidentalizzarsi si direbbe ad uno stadio avanzato. Fatta eccezione che per il cuore. A 27 anni, mentre fissa la foto di Fancy, neanche per un istante il suo sguardo viene attraversato dal dubbio. Ed è da questa totale assenza di turbamento, da questo senso di “ovvietà” nell’accettare che il proprio destino sia deciso da altri, che Vittorio Moroni è partito per girare il film-documentario “Le vacanze di Licu”, un lungometraggio prodotto da 50N e RaiCinema che verrà presentato al prossimo festival del cinema di Berlino. […]
Il testo integrale dell’articolo di Maria Stella Conte è stato pubblicato sul sito di Repubblica