La debacle in cui è precipitata la Santa Sede dopo Regensburg, una vera e propria Waterloo che ha costretto il pontefice a scusarsi personalmente e pubblicamente, è molto più che un incidente di comunicazione. L’infelice citazione anti Maometto, seguita dalle violenti reazioni del mondo islamico e dall’amara indignazione dei musulmani moderati europei, ha portato violentemente alla luce lo strappo compiuto da Ratzinger nei confronti della strategia condotta per oltre due decenni con successo da Giovanni Paolo II. Papa Wojtyla era tutt’altro che un buonista. Era perfettamente consapevole sia degli elementi di violenza presenti nella tradizione islamica sia delle pulsioni aggressive e intolleranti. Pulsioni che contraddistinguono alcune parti del Corano e delle sue interpretazioni e che sempre hanno convissuto con il comandamento della tolleranza e del rispetto per i fedeli dei grandi monoteismi ebraico e cristiano. Wojtyla non si nascondeva nulla e meno che mai la pericolosità dei rinascente fondamentalismo, che con l’avvento di Khomeini ha caratterizzato proprio l’inizio del suo pontificato. Lo sanno i suoi intimi, lo sanno le personalità che hanno potuto affrontare con lui l’argomento. Mistico di animo, ma anche filosofo della storia e leader religioso politico, Giovanni Paolo II ha però costruito su questa analisi spassionata della realtà una strategia di sistematico dialogo e coinvolgimento delle elite islamiche di tutto il mondo. […] Tutto questo si e tragicamente spezzato con i fatti di Regenshurg (e vedremo se Ratzinger e il suo Segretario di Stato riusciranno a rimontare la china), ma le origini risalgono all’inizio dell’attuale pontificato. Già nella messa inaugurale Benedetto XVI ha cancellato il riferimento ai rapporti fraterni con il monoteismo islamico. Di colpo quel triangolo costruito da Giovanni Paolo II ha perso un pezzo, restando solo il rapporto speciale tra ebraismo e cristianesimo. Poi Benedetto XVI ha archiviato il ruolo autonomo del Consiglio per il dialogo interreligioso, guidato da un esperto islamista di prima qualità come mons. Michael Fitzgerald, mandato in esilio diplomatico al Cairo. L’apice di questo progressivo declassamento si è raggiunto con il ventennale della grande preghiera interreligiosa di Assisi, che papa Wojtyla convoco neI 1966. Quando l’anno scorso i responsabili della Comunità di Sant’Egidio hanno chiesto a Ratzinger come intendesse commemorare l’evento, si sono sentiti rispondere garbatamente che non c’era particolare motivo per celebrare un ventennale. Alla fine la commemorazione si è fatta ristretta in due giorni e si è gridato al miracolo per un messaggio di incoraggiamento del pontefice, che gli stessi organizzatori fino alla vigilia non erano sicuri potesse arrivare. […] Invece di partire dal Dio comune, Joseph Ratzinger è tormentato dalle preoccupazioni che nascono dai messaggi di violenza intessuti nel Corano, e dubbioso sulle reali capacita della religiosità islamica di misurarsi con il problema della laicità, e assillato dagli interrogativi riguardanti una fede che per lungo tempo ha ridotto gli spazi di una interpretazione flessibile del testo sacro e che oggi in molte parti del mondo e sottoposta ad una deriva fondamentalista di cui fanno parte come propaggine estrema le schegge impazzite terroriste. Ragionamenti giusti, interrogativi fondati che il pontefice ha cercato di sciogliere disegnando all’ateneo di Regenshurg l’immagine di una fede che si coniuga alla razionalità e che per ciò stesso deve essere aliena dalla violenza. Ma il mondo non è un’aula universitaria e i mutamenti in altre società religiose non avvengono ex cathedra come Benedetto XVI consciamente o incon sciamente sembra portato a credere. In Vaticano una strategia verso l’Islam ora è tutta da ricostruire.
Il testo integrale dell’articolo di Marco Politi è stato pubblicato oggi su “Repubblica”