Puff. Ventisei anni di pontificato wojtyliano andati in fumo in un baleno. Benedetto XVI aveva un rospo, trattenuto in gola per troppo tempo. Doveva dire al mondo la sua visione dell’islam, doveva farlo nella forma articolata e maestosa di un discorso scritto, una lezione di teologia in cui esplicare il Ratzinger-pensiero. Doveva far capire al mondo che l’islam è una religione che manca della ragione, e che quindi è esposta ai terribili rischi della guerra santa. Doveva spiegare che il cristianesimo è la religione del logos, parola greca che vuol dire «verbo» e «ragione» al tempo stesso, dunque è il credo che riesce a coniugare ragione e fede. E che rappresenta, insieme con il pensiero filosofico ellenico, uno dei due bastioni della civiltà occidentale. Da troppo tempo aveva queste idee, le accennava, le ventilava ai suoi collaboratori ma, data la presenza di Wojtyla, non poteva esprimerle compiutamente. Adesso Benedetto è venuto allo scoperto. Ora si comprendono le sue riserve verso i raduni interreligiosi (da Assisi 1986 in poi). Ora si comprende l’insistenza che, da Prefetto del Sant’Uffizio, ebbe per la pubblicazione dell’enciclica Dominus Iesus.
Ora, però, la parola «continuità», usata nei primi discorsi dopo l’elezione al soglio di Pietro, sembra andata in pensione, e il papa sembra aver dimenticato le orme del suo «amato predecessore», come l’ha definito più volte. Ratzinger sa di essere, su questo punto, distante anni luce da Wojtyla. E’ un pontefice che ha la sua personalità, la sua formazione, le sue sensibilità e preferenze teologiche, certo. Ma la prudenza e la responsabilità, proprie del ruolo che ricopre, avrebbero dovuto suggerirgli di percorrere un altro sentiero. Non certo quello di ribaltare, almeno agli occhi del pubblico dei musulmani, le parole di Wojtyla.
Beninteso, si tratta di «sensibilità» e di «accenti», non certo di differenze dottrinarie. Ma proprio su questi accenti Wojtyla aveva faticosamente costruito un rapporto simpatetico con il mondo islamico, aveva sdoganato il suo pontificato, dandogli un’impronta universalistica. E’ stato un papa «globalizzato», in un momento in cui il melting pot culturale è inevitabile. Inanellando una serie di gesti significativi, Wojtyla era riuscito a costruire un rapporto con i leader musulmani più diversi, e soprattutto a farsi accettare dalle masse arabe. Il tassista del Cairo, il venditore ambulante a Tunisi e il barbiere di Islamabad ne riconoscevano l’impegno per la pace, lo rispettavano e lo percepivano come «amico». I viaggi nei paesi islamici, l’incontro interreligioso di Assisi, il viaggio a Gerusalemme, l’ingresso nella moschea di Damasco, i continui richiami al comune padre Abramo, sono stati gesti coraggiosi, a volte deflagranti, che comunque comunicavano prossimità, dialogo, amicizia, rispetto, amore. Questo approccio non significava certo per Wojtyla abdicare alla centralità di Cristo o mettere in discussione le proprie verità di fede, ma manifestava la volontà di costruire armonia a fraternità a tutti livelli, tantopiù in un mondo già di per sé devastato dai conflitti e dal terrorismo.
Wojtyla sentiva potente il richiamo dell’attualità, il ruolo propositivo della chiesa come agente di riconciliazione. Per questo i suoi discorsi erano sapientemente calibrati. Faceva uso dell’empatia, amava mettersi nei panni dei suoi interlocutori, specialmente quando molto diversi da sé. E così ha aperto una strada dialogica e una relazione con l’islam. Soprattutto, pur sottolineando la necessità per l’Europa di riconoscere le sua radici cristiane, non ha mai teorizzato la piena identificazione del cristianesimo con la civiltà occidentale (che pure ne è stata la culla), ma ha sempre cercato di declinarle il messaggio di Cristo in senso universale, facendo del processo di «inculturazione» (la fusione originale del messaggio evangelico con le diverse culture) la chiave teologica e pastorale per la presenza delle comunità cristiane nei cinque continenti.
Questa impostazione, che ha scongiurato le moderne crociate, e ha salvato tante vite dei fedeli cattolici in terre ostili, è stata di fatto sconfessata da Ratzinger nel discorso di Ratisbona. Un discorso che può essere anche ritenuto impeccabile nella sua raffinatezza teologica, ma che risulta confezionato con lo stile assertivo (e dunque integralista) del cattedratico e che manca di un elemento fondamentale: l’interrogativo come sarà recepito? Quali reazioni potrà generare?
Questa lacuna significa che Ratzinger non ha ben chiaro il peso delle sue parole da pontefice. Il medesimo discorso fatto da un da un professore di teologia non avrebbe avuto lo stesso impatto. E se il papa intendeva puntualizzare la natura del dialogo interreligioso (da lui inteso in chiave interculturale, come testimonia la fusione fra i dicasteri della cultura e del dialogo), avrebbe potuto convocare una conferenza internazionale di studio per fare trapelare il suo pensiero.
Oggi lo sguardo dell’islam su Benedetto XVI è obliquo. Le richieste di «ritrattare» giunte da ogni parte del mondo, sono il segno inequivocabile di un fallimento o, peggio, di un imminente conflitto. Che, con un passo indietro di decenni, potrebbe trasformare il papato in un’istituzione arroccata nei suoi dogmi, nella sua estraneità rispetto al mondo contemporaneo. Sarebbe un tradimento del Concilio Vaticano II, che indicava la chiesa come «sale, luce e lievito» nel mondo. Oggi sembrano tornati i muri e l’incomunicabilità.
*Lettera22
Un altro articolo di Filippo Gentiloni è raggiungibile a questo link
Per secoli i Papi hanno cercato di nascondere gli orrori della Bibbia senza tuttavia mai rinnegarli in quanto, al pari dell’oro di Fort Knox per il valore del dollaro, erano e sono tuttora considerati fondamentali per l’esistenza stessa della fede. Ma in passato non c’era la globalizzazione nel campo delle comunicazioni, non c’erano satelliti che diffondevano ogni più piccolo sospiro del Papa in tempo reale. Gli stessi Papi, non avendo una cassa di risonanza così efficiente, parlavano di meno. Allora questo “fine teologo”, considerato da alcuni estremamente colto e intelligente non riesce a rendersi conto del potere deflagrante delle sue parole? La diplomazia non è il suo forte. Siamo passati da Pio XII, il papa del silenzio, a Benedetto XVI, il papa che non riesce a tacere neppure per cinque minuti.
Senza dubbio Wojtyla era più pastore e “teologicamente corretto”, ma quanti leader musulmani hanno ricambiato le sue aperture? Il problema è che c’è una parte consistente del mondo islamico che dal medioevo non è mai uscita.
Molta parte del mondo islamico non è mai uscita dal medioevo, è vero, ma la cosa si può dire alche dei cristiani (con l’eccezione di alcuni protestanti, ad es i Valdesi). L’unico modo per uscire da questo circolo vizioso è la democrazia e, quindi, la laicità degli Stati. Il resto è aria fritta. Quando i credenti di ogni religione (cioè credenti nelle favole) se ne renderanno conto forse sarà troppo tardi.
Il problema non sono solo le parole del papa o come le hanno recepite le masse Islamiche, ma anche la reazione di tutti quegli accidentali, credenti e non, fautori del definitivo scontro di civiltà, che non vedevano l’ora di unirsi sotto il vessillo ecclesiastico e partire per una nuova guerra!
Soprattutto non si spingono le persone a cambiare offendendole e insultandole. Questo è un periodo critico in cui i gruppi fondamentalisti cercano qualsiasi scusa per fomentare la folla, andare a criticare ciò che ha fatto Maometto non è una delle idee migliori.
Se accadrà qualcosa non possiamo dire che non ce la siamo cercati.