Piero Welby: “Caro Presidente, voglio l’eutanasia”

Caro Presidente, scrivo a Lei, e attraverso Lei mi rivolgo anche a quei cittadini che avranno la possibilità di ascoltare queste mie parole, questo mio grido, che non è di disperazione, ma carico di speranza umana e civile per questo nostro Paese. Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno per qualche ora del giorno potevo, con l’ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche, incontrare gli amici su internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da dove non trovo uscita. […] Ora la mia patologia, la distrofia muscolare, si è talmente aggravata da non consentirmi di compiere movimenti, il mio equilibrio fisico è diventato molto precario. A mezzogiorno con l’aiuto di mia moglie e di un assistente mi alzo, ma sempre più spesso riesco a malapena a star seduto senza aprire il computer perchè sento una stanchezza mortale. Mi costringo sulla sedia per assumere almeno per un’ora una posizione differente di quella supina a letto. Tornato a letto, a volte, mi assopisco, ma mi risveglio spaventato, sudato e più stanco di prima. Allora faccio accendere la radio ma la ascolto distrattamente. Non riesco a concentrarmi perché penso sempre a come mettere fine a questa vita. […] Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c’è pietà. Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una “morte dignitosa”. No, non si tratta di questo. E non parlo solo della mia, di morte. La morte non può essere “dignitosa”; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili. La morte è altro. Definire la morte per eutanasia “dignitosa” è un modo di negare la tragicità del morire. È un continuare a muoversi nel solco dell’occultamento o del travisamento della morte che, scacciata dalle case, nascosta da un paravento negli ospedali, negletta nella solitudine dei gerontocomi, appare essere ciò che non è. Cos’è la morte? La morte è una condizione indispensabile per la vita. Ha scritto Eschilo: “Ostico, lottare. Sfacelo m’assale, gonfia fiumana. Oceano cieco, pozzo nero di pena m’accerchia senza spiragli. Non esiste approdo”. L’approdo esiste, ma l’eutanasia non è “morte dignitosa”, ma morte opportuna, nelle parole dell’uomo di fede Jacques Pohier. Opportuno è ciò che “spinge verso il porto”; per Plutarco, la morte dei giovani è un naufragio, quella dei vecchi un approdare al porto e Leopardi la definisce il solo “luogo” dove è possibile un riposo, non lieto, ma sicuro. In Italia, l’eutanasia è reato, ma ciò non vuol dire che non “esista”: vi sono richieste di eutanasia che non vengono accolte per il timore dei medici di essere sottoposti a giudizio penale e viceversa, possono venir praticati atti eutanasici senza il consenso informato di pazienti coscienti. Per esaudire la richiesta di eutanasia, alcuni paesi europei, Olanda, Belgio, hanno introdotto delle procedure che consentono al paziente “terminale” che ne faccia richiesta di programmare con il medico il percorso di “approdo” alla morte opportuna. Una legge sull’eutanasia non è più la richiesta incomprensibile di pochi eccentrici. Anche in Italia, i disegni di legge depositati nella scorsa legislatura erano già quattro o cinque. […] Sono consapevole, Signor Presidente, di averle parlato anche, attraverso il mio corpo malato, di politica, e di obiettivi necessariamente affidati al libero dibattito parlamentare e non certo a un Suo intervento o pronunciamento nel merito. Quello che però mi permetto di raccomandarle è la difesa del diritto di ciascuno e di tutti i cittadini di conoscere le proposte, le ragioni, le storie, le volontà e le vite che, come la mia, sono investite da questo confronto. Il sogno di Luca Coscioni era quello di liberare la ricerca e dar voce, in tutti i sensi, ai malati. Il suo sogno è stato interrotto e solo dopo che è stato interrotto è stato conosciuto. Ora siamo noi a dover sognare anche per lui. Il mio sogno, anche come co-Presidente dell’Associazione che porta il nome di Luca, la mia volontà, la mia richiesta, che voglio porre in ogni sede, a partire da quelle politiche e giudiziarie è oggi nella mia mente più chiaro e preciso che mai: poter ottenere l’eutanasia. Vorrei che anche ai cittadini italiani sia data la stessa opportunità che è concessa ai cittadini svizzeri, belgi, olandesi.

Il testo integrale della lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano scritta da Piergiorgio Welby, Co-Presidente dell’Associazione Coscioni, è stata pubblicata sul sito dell’Associazione Luca Coscioni

3 commenti

Francesco M.Palmieri

Sacrosanto, ma c’è speranza che un Presidente Italiano si ribbelli al Vaticano?
Ho paura che non ci sia.

Massimo

Con i progressi della medicina e le possibilità di allungare la durata della vita umana di cui oggi possiamo disporre siamo ormai arrivati al punto in cui è necessario dare una risposta chiara e non ipocrita a chi chiede che la società ponga attivamente fine alla propria vita. Io provo a dare la mia risposta. Io credo che la vita sia il bene più prezioso da difendere, a cominciare dal suo inizio per terminare alla sua fine naturali. Per questo, se intervento della società ci deve essere, deve essere nella direzione di difenderla e di rispettarla, non di spegnerla. Per cui sono contrario all’eutanasia attiva come la vorrebbe Welby. Se al contrario si ammettesse che è un diritto del singolo ottenere dalla società un aiuto attivo a morire per il solo fatto che egli giudica la sua propria condizione di vita non più degna di essere sopportata, allora apriremmo la porta alla relativizzazione ufficiale del limite di non tollerabilità della vita. Avremmo che non è tollerabile la condizione di malato terminale, ma poi subito dopo dovremmo ammettere che può non essere tollerabile nemmeno quella di malato quasi terminale, e di seguito quella di malato molto grave, e poi grave, e così via percorrendo al contrario la scala della gravità delle condizioni umane giungendo (perché no?) ad ammettere che anche una ragazza lasciata dal suo unico grande amore può giudicare la sua vita indegna di essere vissuta. Il dolore non si misura e non si compara, perché è personale: il dolore e il rifiuto della vita di una ragazza lasciata dal suo grande amore potrebbe essere anche maggiore di quello di un malato terminale. Se il criterio per giudicare il valore della vita è esclusivamente relativo a chi la vive in prima persona dobbiamo arrivare ad ammettere tutto quel che decide il protagonista. Invece la vita è anche un valore sociale: vale anche per tutta la comunità. Chi la vive in prima persona ne è certamente il proprietario, l’unico proprietario, ma credo non possa essere riconosciuto come suo diritto quello di piegare la società a disconoscerne il valore abbracciando la sua propria opinione circa la condizione che vive personalmente fino al punto di ottenere di essere attivamente soppresso. Altra cosa, credo, è il rifiutare medicinali e terapie e lasciarsi morire passivamente, pur con tutti i palliativi che si vuole; credo che nessuno possa essere obbligato a vivere per forza dalla società. Esistono libri e siti internet che insegnano a farla finita in prima persona senza soffrire: se vogliamo prenderci la responsabilità della nostra propria vita prendiamoci anche quella della nostra propria morte. Questa credo possa essere una linea di demarcazione ragionevole fra azione dell’individuo ed intervento dall’esterno.

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