Il clamore suscitato dalle parole del papa sull’islam non sembra placato, nonostante le dichiarazioni distensive di Roma e anche di non poche autorità islamiche. Il papa, in realtà non si è scusato: è stato frainteso, il dialogo può e deve continuare. Un episodio increscioso, utile, comunque, a comprendere meglio il pensiero di Benedetto XVI: due i suoi principali caposaldi, già emersi nel primo anno del pontificato, rinnovati e chiariti nel corso della discussa settimana bavarese: il ruolo della ragione e quello del dialogo. La ragione giudice e arbitro La ragione per il papa è il grande e solenne tribunale di fronte al quale tutto e tutti vengono giudicati. Cristianesimo e islam compresi. Anche al di là e al di sopra sia della Bibbia che del Corano. Quest’ultimo, in particolare, è chiamato a rispondere di fronte alla ragione delle parole sulla guerra e sulla pace. La ragione, dunque, giudice e arbitro. Né irrazionalità, dunque, né relativismo, quel pericolo che il papa più volte ha indicato come il massimo rischio del tempo moderno. La ragione salva e dal relativismo e dall’errore. La ragione giudica. E della ragione è custode proprio Roma, anche se non sempre il papa lo ripete e lo ricorda. Ma sempre la ragione al singolare: ecco il punto su cui vacilla il pensiero ratzingeriano. Sembra che i secoli della cultura moderna siano ignorati: tutti i secoli, infatti, che ci hanno insegnato a parlare delle ragioni al plurale. La ragione al singolare, unica, eguale per tutti, sembra dimenticata da tempo. Da tutti, meno che dal Vaticano, erede più o meno unico di quella ragione al singolare che la cultura greca aveva trasmesso, ma soltanto per qualche tempo, al mondo moderno. La ragione al singolare univa tutto e tutti, poteva insegnare a tutti e giudicare. Così è stato – forse – fino al nostro Medioevo. Poi le scoperte geografiche hanno mostrato a tutti, con la pluralità dei mondi e delle culture, la pluralità delle ragioni. Nel mondo cristiano, i primi a rendersene conto sono stati i protestanti; dal tempo della Riforma non più la ragione universale. Basti dare un’occhiata a come le ragioni moderne parlino proprio di Dio e anche dell’etica (il matrimonio). Come si può invocare la presunta ragione al singolare per parlare di verità e falsità, di guerra e di pace? A questo punto il discorso del papa non regge: non si può citare il Corano davanti a un tribunale inesistente, che avrebbe sede dentro le mura vaticane. Altra la verità, altri i criteri.
Un dialogo tra verità e errore? Altre, molteplici, le ragioni. La loro molteplicità intacca anche l’altro caposaldo del discorso del papa, il dialogo. E’ questo lo strumento che il Vaticano invoca continuamente per favorire il rapporto fra le religioni, in pace e tranquillità. Anche questa volta, per evitare equivoci e fraintendimenti, il papa invoca il dialogo. Ma come intenderlo? All’interno di un’unica ragione universale o ad un livello eguale per tutti, là dove le ragioni si incontrano? Soltanto se così inteso, come dialogo fra eguali, il dialogo può favorire veramente la pace. Non un dialogo fra dialoganti in posizioni diseguali, uno di serie A e gli altri di serie B. Purtroppo il dialogo invocato da Roma è sempre proprio di questo secondo tipo. Per Roma la verità e l’errore possono dialogare ma non sullo stesso piano. Una posizione che anche il recente episodio sembra confermare. Inutile ripetere la necessità del dialogo se uno dei presunti dialoganti si mette su un livello superiore, sale in cattedra. Più che di dialogo, è allora più corretto parlare di insegnamento o di «evangelizzazione», come ha fatto per secoli la tradizione cattolica. In paradiso, comunque, potevano entrare tutti, anche se da porte secondarie. Concessioni, cortesia più che parità. Logica la scontenta irritazione, a dir poco, dell’islam.
L’articolo di Filippo Gentiloni è apparso sul sito del Manifesto