Il teologico istinto dell’arroganza

“Tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge”. Chiaro, netto, inequivocabile: è la fine dell’era dello Stato confessionale, il tramonto della supremazia assoluta della cultura e del pensiero cattolico. Ha inizio la rivoluzione democratica dalle ceneri del totalitarismo fascista. Con queste parole infatti l’articolo 8 della Costituzione italiana pone le basi per la costruzione di uno Stato laico, pluralista e garantista; sottolineando e fortificando, anche sotto il profilo religioso, il valore supremo della libertà. Allo stesso tempo, però, il Costituente repubblicano ha acceso una miccia che da cinquant’anni percorre silenziosa una strada senza fine, attraverso un problema a cui nessuno ha ancora saputo dare una soluzione definitiva, l’ultimo scalino giuridico e culturale per accedere alla porta della vera democraticità: una chiara e ferma definizione di confessione religiosa. Senza definire, non si può disciplinare. Eppure sono molti i provvedimenti, leggi costituzionali e leggi ordinarie, dai codici alla legislazione speciale, che prendono in considerazione le confessioni religiose. È quel corpo normativo che va sotto il nome di diritto ecclesiastico, ovvero il diritto (laico?) pubblico che si preoccupa di disciplinare materie in cui il fattore religioso è molto importante. Ampia è la disciplina, ma senza una definizione, a chi applicare questa disciplina? Come stabilire chi o cosa è confessione religiosa, e quindi destinataria di certi provvedimenti, e chi o cosa non lo è? […] Con l’avvento della Costituzione e dello stato di diritto la musica cambia, almeno nella forma. Prendono corpo tutele, garanzie e diritti dichiarati inviolabili che si ergono a scheletro normativo della nostra vita. […] Gli articoli 7 e 8 si occupano in maniera più specifica del campo religioso. Il primo è costituito di tre affermazioni: stabilisce l’indipendenza e la sovranità reciproca della Chiesa cattolica e dello Stato italiano, ciascuno nel suo ordine; dichiara che i rapporti tra queste due distinte realtà sono regolati dai Patti Lateranensi del 1929; e afferma la non necessaria revisione costituzionale delle modificazioni di tali Patti. La prima di queste tre affermazioni, di valore indiscutibilmente democratico, riluce dell’illuminazione riflessa da due illustri precedenti di Cavour e Giolitti: il famoso aforisma “libera Chiesa in libero Stato” del conte Camillo Benso di Cavour e l’altrettanto nota metafora geometrica di Giolitti che paragonava Chiesa e Stato a “due parallele che non si incontrano mai”. La seconda e la terza affermazione hanno invece generato scontri politici di ampia portata. Alle loro fondamenta vi è una decisa e consapevole presa di posizione a favore di una confessione religiosa particolare, quella cattolica, padrona assoluta dei cuori e delle menti del popolo italiano, muro invalicabile posto alla soglia del pluralismo e della realizzazione concreta dello spirito laico della Costituzione. L’articolo 8, momento centrale per quanto riguarda il tema qui trattato, dichiara l’uguale libertà di tutte le confessioni religiose dinanzi alla legge. Tutte le religioni, dunque, sono secondo questo principio libere e di pari dignità, a meno che non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. […] Anche se neppure all’interno della Carta costituzionale si è potuto realizzare una vera eguaglianza tra le confessioni, pregevoli passi avanti rispetto alle precedenti esperienze storiche sono stati fatti. Esistono infatti principi, garanzie e tutele che prima venivano ignorate. Adesso il problema è individuare i soggetti che ne potranno godere: le confessioni religiose. Fondamentale diventa definirle giuridicamente. Già, ma come? […]

Il testo integrale dell’articolo di Alteredo è stato pubblicato sul blog omonimo