Nulla come la scienza permette di diradare le nebbie. Accade perciò che le teorie di moda su «flessibilità e precarietà» – che sarebbero «necessarie» per aumentare produttività e concorrenza – non hanno subito ancora nessuna verifica attendibile: sfornando cioè quantità, meccanismi, conseguenze. E soprattutto «misurando» il tutto con strumenti trasparenti, messi a disposizione di tutti. Non era accaduto – ed è paradossale – neppure nel campo della ricerca scientifica, a sua volta sconvolta da 14 anni di blocco delle assunzioni (per concorso) e sostenuta solo grazie a iniezioni massicce di precari plurilaureati.
Quando la scienza decide di indagare il fenomeno, i risultati si vedono. Nella sala Marconi del Cnr, ieri mattina, oltre 150 ricercatori e scienziati si sono misurati con lo studio condotto da Carolina Brandi, che ha inaugurato la collana scientifica delle edizioni Odradek. Ne esce distrutto il leit motiv degli editorialisti-liberisti, secondo cui «il lavoratore (ricercatore) precario è altamente produttivo perché mantenuto costantemente sulla corda dalla precarietà contrattuale». Cominciò a proporlo, per gli enti di ricerca, Confindustria nel ’95, in modo da «legare più strettamente ricerca e imprese»; nonostante le imprese italiane siano sempre meno interessate a fare e a utilizzare la ricerca scientifica (solo il 3%, ormai).
Una «panzana», la definisce Enrico Pugliese. Il frutto di una «ubriacatura ideologica», nelle parole di Marco Broccati, della Flc-Cgil, che «però non è stata ancora smaltita» e che disegna un quadro negativo di lungo periodo. Persino studiosi Usa hanno ormai accertato che la «produttività» scientifica aumenta con la stabilità del contratto. Il perché è intuitivo, ma i dati statistici lo confermano in pieno: il precario, all’avvicinarsi della scadenza del suo impegno, dedica sempre più tempo e attenzione alla ricerca di un nuovo contratto. Anche la «mobilità» intersettoriale o territoriale – altro argomento ritenuto «forte» a favore della precarietà – risulta più alta tra i ricercatori «garantiti». Quanto all’autonomia, ben l’81% del campione dichiara di non aver neppure mai chiesto un finanziamento su un proprio progetto.
Il mito della «concorrenza», però, è duro a morire. mal lavoro scientifico, però, la precarietà genera solo «rivalità» e gelosie tra partecipanti allo stesso gruppo, mentre la «sana competizione» per ottenere risultati migliori si palesa solo tra chi ha un contratto stabile. Le donne , infine, escono massacrate: hanno mediamente contratti a termine di durata inferiore e più lunghi periodi di precarietà prima di raggiungere l’agognata assunzione. Il precario, infine, risulta anche meno «flessibile», più «ancorato» allo stesso settore. La situazione internazionale dei paesi avanzati è praticamente identica quanto a dinamiche, l’Italia, però, «eccelle» in negatività: siamo l’unico paese Ocse in cui i ricercatori diminuiscono di numero e la spesa in ricerca delle imprese cala continuamente. Il risultato più importante della ricerca della Brandi è però un altro: la precarietà e la flessibilità non sono soltanto un’intollerabile gogna per le persone che vi sono costrette (e stiamo parlando di aspiranti scienziati che ammettono di aver fatto «una scelta di vita», rinunciando magari a posti di lavoro certamente più remunerativi), ma sono anche un cancro che mina le possibilità di sviluppo di un paese e della sua popolazione, preparando il degrado della conoscenza e quindi l’arretramento complessivo (economico, scientifico, culturale, sociale).
Non c’è da sorprendersi, infatti, se dal combinato disposto di riduzione della spesa, precarietà contrattuale, autonomia erosa da una «stratificazione di divieti» di origine e motivazione ragionieristica, svalutazione industriale dell’impegno scientifico, venga fuori una percezione sociale diffusa che vede nella carriera scientifica un «salto nel buio». Da dove pensate che nascano fenomeni come la «crisi delle vocazioni» e la «fuga dei cervelli»?
Le risposte che si pretendono dalla politica – in questo consesso di scienziati che non nasconde di aver inutilmente sperato nella vittoria del centrosinistra – non mirano a un «ritorno al passato», né alla «sanatoria ope legis» che non distingua tra ricercatori meritevoli e imboscati per via clientelare. Ma almeno a un’«inversione di tendenza» rispetto alla corsa ai tagli finanziari, e alla riapertura dei concorsi con criteri meno raccapriccianti di quelli attuali (solo il 25% del punteggio viene dai titoli e dalle pubblicazioni scientifiche), questo sì.
La precarietà distrugge la ricerca scientifica
10 commenti
Commenti chiusi.
E come mai vanno i ricercatori vanno negli USA, il regno della flessibilità?
Forse perché lì “flessibilità” vuol dire che puoi scegliere dove andare a lavorare, perché tuttti ti cercano, al contrario dell’Italia? o perché lì si guadagna dieci volte di più dei 1500 euro al mese di un ricercatore confermato italiano (tenendo conto che la conferma arriva dopo 3 anni di dottorato, svariati anni di precariato e tre anni per l’attesa della conferma dopo la chiamata in ruolo)?
..forse perche` in italia non hai la minima possibilita` di farti una vita (casa, macchina, bambini…) se sei un ricercatore.
…e forse anche perché ormai gran parte delle idee e dei gruppi di ricerca sono lì e fanno comunque da centro aggragante
con questa gravissima crisi economica questo governo ha ceduto agli autoferrotranvieri:102 euro di aumento lordo mensili. alla faccia! a me pensionato l aumento lordo mensile e di 5 euro. governo maledetto,forte coi deboli e debole coi forti! maledetto!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
in ogni caso, lì se non fai guadagnare non vali granché. In Italia la ricerca di base era di altissima qualità in molti ambiti, ma chiaramente la ricerca di base serve all’umanità, non alle industrie e dunque nella corrente monetarizzazione di ogni valore viene penalizzata.
Prima, avevamo un sistema universitario vecchio e obsoleto, altamente inefficiente, ma adesso ne abbiamo uno che scimmiotta i lati peggiori di quello anglosassone senza che la società sia cambiata. E la cura Moratti rischia di peggiorare la situazione…
Sono d’accordo con Giuseppe e Lorenzo Gallo.
Tempo fa, parlando della condizione dei ricercatori proprio su questo forum, qualcuno aveva anche sollevato il problema della baronia, in Italia più grave che in altri paesi.
Vorrei solo osservare che i continui tagli di fondi alla ricerca non fanno altro che esasperare anche questo aspetto, portando i “gruppi di potere costituito” all’interno delle università a richiudersi sempre più su se stessi.
Vorrei inoltre portare la mia testimonianza di mancata ricercatrice: nonostante i ripetuti inviti del mio professore (persona seria, competente e stimata in ambito accademico ma non propriamente un barone) a intraprendere quasta carriera per la quale, a suo avviso, avevo buone attitudini, ho infine deciso di rinunciare proprio per l’eccessiva incertezza di questa strada che, parlando in termini strettamente economici, proprio non mi potevo permettere.
Non rimpiango la scelta fatta, ma mi chiedo tutti i giorni quanti giovani si siano trovati nella mia stessa situazione e, soprattutto, quanto tutto ciò possa costare al nostro paese in termini di mancate occasioni di crescita e sviluppo.
Mi permetto di intervenire pesantemente, in quanto ricercatore nel campo dell’astrofisica.
1) «il lavoratore (ricercatore) precario è altamente produttivo perché mantenuto costantemente sulla corda dalla precarietà contrattuale»
Questa affermazione, gia’ parzialmente controbattuta nell’articolo, e’ un dogma al pari dell’immacolata concezione. Quest’ultima pero’ ha una piu’ elevata probabilita’ di corrispondere alla realta’! La precarizzazione della ricerca porta ad un aumento del NUMERO delle pubblicazioni scientifiche, a cui a mio avviso corrisponde una caduta verticale della loro qualita’. Inoltre, il sistema anglosassone non motiva i ricercatori ad intraprendere ricerche che siano davvero innovative: non se le possono permettere perche’ non sono certi dei risultati (=pubblicazioni), ed a questi e’ legata non la loro *carriera*, ma la loro *sopravvivenza*.
Non a caso, secondo me, molti campi della ricerca di base sono sostanzialmente impantanati da un ventennio.
Altro mito da sfatare, collegato a questo sistema, e’ che “le idee migliori si hanno da giovani”. In realta’ in america questo accade perche’ solo un giovane e’ abbastanza incosciente da rischiare il proprio futuro su idee innovative. Inoltre, il periodo del dottorato e’ paradossalmente il piu’ lungo periodo di lavoro stabile prima della full professorship. Infine, anche la distribuzione dei fondi di ricerca e’ impostata in modo competitivo/mercantilistico; con il progredire della carriera, una percentuale sempre maggiore del proprio tempo finisce per essere impiegata nella ricerca dei fondi e non nella ricerca scientifica. Peccato, perche’ in passato si e’ dimostrato come le idee migliori in campo scientifico vengano quando si ha un buon patrimonio di esperienza e cultura e non si e’ ancora decrepiti… tra i 40 e i 50, quindi, non tra i 20 e i 30.
2) >
Questo e’ un altro mito liberista. L’impresa NON fa ricerca di base, a meno che non sia per accedere a fondi statali di qualche tipo. In questo caso, si tratta solo di un sistema particolarmente inefficiente di finanziare pubblicamente la ricerca.
Ribadisco che studiare un nuovo colore per la custodia del telefonino o un tipo piu’ resistente di goretex NON E’ RICERCA DI BASE. Probabilmente non e’ ricerca tout court, ma se proprio dobbiamo darle questa dignita’, e’ ricerca applicata.
3) @lik:
-a- Tra i ricercatori che conosco io, la maggior parte di persone che ha scelto di andare in america lo ha fatto per disperazione. Tra nessuno stipendio e uno stipendio precario, meglio comunque il secondo. Io stesso ho rifiutato un offerca con salario TRE VOLTE PIU’ ALTO del mio, perche’ era una posizione a tempo determinato. Me lo sono potuto permettere perche’ ho vinto il concorso da ricercatore; altrimenti avrei DOVUTO accettare (e, ad un salario inferiore.. SOLO DUE VOLTE QUELLO CHE PRENDO COME RICERCATORE FISSO QUI). Naturalmente ne conosco alcuni che invece apprezzano quel modello di ricerca, sia chiaro.
-b- nel sistema americano e’ facile essere licenziati da un’universita’ di prestigio; ma ce ne sono di piccole che sono sempre alla disperata ricerca di personale, quindi senza lavoro e’ difficile che ci resti
-c- la SOCIETA’ americana vede uno scienziato (anche uno che abbia fatto astrofisica o matematica applicata) che sta cercando lavoro fuori dall’universita’ come una preda ambita, non come un relitto umano. C’e’ un po’ di differenza.
-d- Idem per il Ph.D. (dottorato); in Italia, uno col dottorato e’ uno con la laurea vecchia di tre anni. Tempo fa ho fatto dei colloqui nel privato; mi e’ stato esplicitamente suggerito di TOGLIERE IL DOTTORATO E LE REFERENZE SCIENTIFICHE DAL CURRICULUM, se volevo sperare di trovare un posto. In USA, uno col PhD e’ uno da contendersi.
4) Quasi tutto il mondo universitario e scientifico ha sperato nella vittoria del centrosinistra, non perche’ ci si aspettasse chissa’ che livello di finanziamenti, ma soltanto che si smettesse la politica di tagli. Ci siamo aspettati troppo.
5) Almeno nel mio campo, l’affermazione “solo il 25% del punteggio viene dai titoli e dalle pubblicazioni scientifiche” e’ FALSA.
Primo, questo dipende dal bando di concorso. Di solito non e’ mai meno del 33% (un terzo) e spesso e’ il 50%. Secondo, comunque il resto dei punti deriva da un esame scritto ed orale, che volge sulla materia in concorso, non da chissache’.
Detto questo, il nostro sistema di reclutamento e’ delirante, sbagliato, ed andrebbe riformato, a detta mia e di *tutti* i ricercatori che conosco coi quali ho parlato del tema.
Pero’, una ennesima leggenda che sento ripetutamente e’ che il nostro sistema di ricerca “non e’ sufficientemente basato sul merito”. Per quanto riguarda il mio campo, fisica e astrofisica, competiamo a livello internazionale e con le regole internazionali. Mi permetto di aggiungere, con risultati a volte molto apprezzabili.
Buona parte dei ricercatori italiani che conosco ha una “produttivita” (comunque la si misuri) paragonabile a quella di qualunque parigrado europeo o americano.
Sicuramente, non sempre gli avanzamenti di carriera sono direttamente collegati al merito e questo e’ un problema. Ma la mia sensazione e’ che il sottointeso della leggenda e’ che bisognerebbe precarizzare questi scansafatiche dei ricercatori italiani. QUESTO SOTTOINTESO E’ INSULTANTE ED INACCETTABILE.
..scusate la prolissita’, ma per me e’ un tema piuttosto “caldo”.
Il problema e’ culturale, la precarieta’ disegna un cuadro negativo perche Italia non puo permetesi un stato religioso e uno laico; e’ un paradosso
Sottoscrivo quello che dice il mio amico e collega Giuseppe, con qualche precisazione.
Non bisogna pensare sempre agli Stati Uniti quando si pensa alla ricerca; il sistema statunitense e` una evoluzione di quello inglese, ed esistono in europa diversi altri sistemi con caratteristiche molto interessanti (Germania, Francia, Danimarca…). Il livello di precarieta` del lavoro e` diverso in questi sistemi, ed in genere minore del sistema statunitense.
Dobbiamo anche intenderci cosa intendiamo per precarieta`. Quando ero post-doc a Cambridge (Inghilterra), pagato dalla Unione Europea, prendevo circa cinque milioni al mese (nel 1997), esentasse se stavo meno di due anni, avevo un piccolo fondo per andare ai congressi, e l’universita` che mi ospitava oltre a darmi un ufficio e un computer (per contratto, non per buona volonta`) mi ha anche aiutato a trovare casa. Inoltre, avevo un budget per le spese di trasferimento. Infine, la mia collocazione all’interno dell’istituto in cui lavoravo non era di “subalterno” ma di “giovane ricercatore”, con una sua indipendenza. Aggiungete a tutto questo che nel sistema inglese si arriva al dottorato verso i 25 anni, cioe` nella fase della vita in cui andare un po’ in giro per fare esperienza e` in genere un’ottima idea.
Vogliamo confrontare con le condizioni di lavoro di un assegnista in Italia?
Questo per dire che molti colleghi pensano che la “precarieta`” aiuti non solo la produttivita` ma anche la maturazione scientifica. Le critiche di Giuseppe sono verissime, pero` passare dei periodi di lavoro in posti diversi dal proprio fa molto bene, mentre fossilizzarsi da subito in un luogo e su un argomento fa malissimo. Una buona via di mezzo e` necessaria e opportuna.
Se precarieta` vuol dire passare anni in condizioni insostenibili senza una seria prospettiva di miglioramento, allora e` inaccettabile senza se e senza ma. Ma sono favorevole al buon uso, culturale prima che codificato, di andare in giro per un po’ in una fase della vita.
Ma se precarieta` vuol dire essere sempre e comunque soggetti al vaglio del “mercato” (per i fondi necessari alla sopravvivenza professionale quando non per il posto stesso di lavoro) allora… dateci tregua! non e` cosi` che vengono fuori le buone idee
PS Giuseppe, sei troppo ottimista, le buone idee vengono fuori entro i 40 anni! dopo quell’eta` vegono fuori, al massimo, le GRANDI idee.