Caso Welby: prima di tutto la persona

Gentile direttore, l’editoriale su Il Tempo di domenica 17 dicembre, riguardo alle persone scese in piazza per chiedere di esaudire la supplica di Piergiorgio Welby, conteneva alcune inesattezze. L’autore dell’articolo afferma: “La posta in gioco è la più alta possibile: la rinuncia al bene più prezioso che ogni uomo ha: la vita”. Parlare in genere della vita, ed affermare che è un bene prezioso, può avere senso; parlare della vita dell’autore dell’articolo, anche può avere senso; ma parlare ad esempio della vita di un paio di settimane, o di qualche giorno, o di qualche ora, di un neonato portatore di malattia terribile ed incurabile, non ha davvero alcun senso. Anzi: è un non senso. Ce lo ricorda Giovanni Paolo II, nella Evangelium vitae (n.7), quando afferma che la morte è entrata nel mondo, gettando “l’ombra del non senso sull’intera esistenza dell’uomo”. La vita, in certe circostanze, può diventare un non senso. Altra inesattezza: “Ma in ciascuno di noi deve essere chiaro che questa scelta è perdente sia sul piano etico che su quello giuridico”. Sul piano giuridico può essere vero, ma l’autore dell’articolo deve dimostrare che considerare l’interruzione dell’accanimento terapeutico, unica via percorribile per dare pace a chi la invoca disperatamente, sia cosa immorale. Ed ancora: “Sul piano religioso, infine, la fede cattolica ci lega a un rispetto della vita, e anche del dolore, che va aldilà di ogni decisione possibile su questa terra”. Anche qui si parla genericamente della vita e non della persona; in realtà è la persona che esige il massimo rispetto; e tenerla in vita forzosamente, contro la sua stessa volontà, procurandogli inutili sofferenze, significa semplicemente essere poco cristiani.

L’intervento di Renato Pierri è stato pubblicato oggi su “Liberazione”