La letteratura araba contemporanea ha alle spalle una ricchissima tradizione con cui, com’è ovvio, si è trovata spesso a articolare un ineludibile confronto. Il turàth, ovvero il patrimonio culturale ereditato a partire dall’epoca preislamica, viene assunto di volta in volta dagli autori contemporanei come canone, o rifiutato come ostacolo alla modernizzazione, oppure rielaborato nella ideazione di nuove opere che inglobino temi o modelli profondamente radicati nella tradizione araba. Proprio sul tema della continuità e della rottura con la gloriosa eredità del passato è tessuto il filo conduttore del saggio di Roger Allen, professore di letteratura araba alla University of Pennsylvania di Philadephia, titolato La letteratura araba (competentemente tradotto da Bruna Soravia, il Mulino 2006, pp. 336, euro 19,50).
Quando il libro apparve nel ’98 con il titolo The Arabic Literary Heritage – forse più pertinente di quello italiano – alcuni esperti si meravigliarono di fronte al tentativo di racchiudere l’intera produzione letteraria araba in poche centinaia di pagine: in effetti, l’autore stesso, nella sua introduzione metodologica, sottolinea come il suo studio si risolva in una sintesi introduttiva alla letteratura araba e afferma la sua consapevolezza «dei rischi impliciti nel fatto di aver voluto costringere la ricchezza di una tradizione letteraria tanto vasta in uno spazio così ristretto». […]
Quanto alle riflessioni che in occidente vengono dedicate, negli ambiti più diversi, all’«altro», è superfluo ricordare quanto queste rivelino solo raramente una vera conoscenza di quali siano i risultati della discussione in ambiti a noi lontani. La disputa che pretende di contrapporre Oriente e Occidente anima da secoli i dibattiti di letterati, storici, filosofi arabi e, come precisa al-Tahir Labib nel saggio che dà il titolo al volume, «se è vero che l’Occidente ha creato il suo Oriente, è anche vero che l’Oriente ha inventato il suo Occidente». Labib nota come l’affannosa ricerca, da parte araba, di una propria identità attraverso la costruzione dell’immagine dell’altro, in epoca contemporanea trovi spesso rifugio «nella creazione di un’alterità assoluta, che incombe come un nemico minaccioso». Al contrario, nell’età classica, la stessa alterità si presenta come «una realtà plurale che sembra il prolungamento naturale di un universo culturale che ammette al proprio interno un vasto spettro di diversità». La distanza tra le due prospettive è il riflesso di mutamenti sociali e culturali pertinenti a quel determinato contesto storico, e il disinteresse del mondo arabo-islamico medievale per l’Occidente è derivato soprattutto dal fatto che «esistevano popoli e paesi più importanti con cui i musulmani avevano legami più stretti e di cui avevano una migliore conoscenza». La caratteristica dell’epoca sta in un eclettismo che – come nota Labib – è «reso possibile soltanto perché i limiti imposti dalla legge religiosa sono inoperanti nel tessuto dei rapporti sociali e… al vertice della gerarchia politica». L’esempio più illuminante è costituito dai membri di una scuola filosofica del X secolo, secondo i quali l’essere perfetto doveva essere «di stirpe persiana, di religione araba, cortese come un iracheno, dotto come un ebreo, retto come un cristiano, ascetico come un siriano, sapiente come un greco, profondo come un indiano, integro come un sufi». Nessun riferimento alla componente africana, che pure ha avuto una parte importante nello sviluppo della civiltà arabo-islamica. […]
Nell’ultimo saggio di questo volume dedicato all’Altro nella cultura araba Hasan Hanafi analizza la famosa Descrizione di Parigi del viaggiatore ottocentesco egiziano Rifa’ a al-Tahtawi. Impegnato da diversi anni nell’elaborazione di quell’«occidentalismo» che Edward Said temeva essere la risposta sbagliata all’orientalismo, Hanafi fa prevalere una visione dicotomica dell’incontro tra Oriente e Occidente, sottolineando, di volta in volta, la supremazia di una parte sull’altra. Gli replica al- Tahir Labib, ricordando come i viaggiatori dell’ottocento andassero in Occidente per imparare sì, ma anche per ritrovare se stessi, per rendere evidenti ai loro occhi le differenze e le somiglianze tra le due civiltà; e traendo proprio dall’osservazione delle «affinità» la giustificazione per imparare dall’altro e abbandonare i propri pregiudizi. Perciò, allo scopo di cogliere la complessità della situazione attuale, Hanafi suggerisce di ripartire da quel periodo della nahda in cui Oriente e Occidente si ritrovarono.
L’articolo completo è raggiungibile sul sito del Manifesto
Un altro articolo sullo “scontro” tra Oriente e Occidente, in particolare riguardo la devastazione di Costantinopoli da parte di forze europee, è raggiungibile a questo link