Fare del bene, il piacere dei laici

Quando Bruno Manghi, sociologo e sindacalista torinese, ora direttore del Centro studi Cisl di Firenze, ha licenziato per «i Grilli» di Marsilio il suo ultimo lavoro, Fare del bene, arrivato in questi giorni nelle librerie, ha proposto come sottotitolo «Un piacere del nostro tempo». Più prudente, l’editore ha scelto «Il piacere del dono e la generosità organizzata». La questione del piacere è fondamentale, per l’autore, per capire la differenza tra il fare del bene dei nostri nonni, della tradizione caritatevole, e il significato che ha oggi.
La tesi è che un tempo, nelle società di classe, il fare del bene – aiutare i poveri, sfamare gli affamati, dare l’elemosina, assistere i malati, soccorrere i deboli, ospitare gli alluvionati – fosse concepito come un dovere (secondo i dettami dell’educazione religiosa) e anche come una rinuncia o un sacrificio. Oggi, invece, la generosità organizzata, grandissima o piccolissima, individuale o collettiva, secondo Manghi è il frutto di una precisa scelta soggettiva, è espressa, non è nascosta, è una aperta manifestazione di più energie o più ricchezza, e l’oblazione convive con il benessere e il consumismo, anzi se ne alimenta. Soprattutto, non nasce tanto da un imperativo morale quanto da un bisogno di autorealizzazione. Si ospita un bambino di Chernobyl o si decide un’adozione internazionale, si insegna in una scuola popolare o si cucina in una mensa per i poveri, si pulisce un bosco o una spiaggia o si sostiene un canile-rifugio, si versano contributi a Medici senza frontiere o a Specchio dei Tempi, perché farlo è un piacere e una autogratificazione. È una visione laica del fare del bene. […]
Può essere un po’ egoistuccio. Questo fare del bene è qualcosa di diverso dalla bontà; non ha a che fare con il Pantheon dei personaggi modello studiati a scuola, da San Martino che divide il mantello a Mazzini che fa la carità a un mendicante. Se mai, all’origine di questo nuovo fare del bene c’è quasi sempre un’emozione, e non a caso spesso gli impulsi a compiere buone azioni vengono dai media. «Nel connubio tra dovere e piacere, quest’ultimo finisce per alzare la testa fino a diventare un prius esperienziale». Per cui Manghi ci vede un quid che appartiene all’individualismo contemporaneo «troppo spesso condannato in termini quasi caricaturali».. […]
Alla fine del percorso entra in gioco una questione chiave: il ruolo del volontariato. È la più solida forma di generosità organizzata nel nostro paese. Ha fatto in un decennio passi da gigante. Però Manghi vede il rischio di farne uno strumento istituzionale, che surroghi le carenze pubbliche, oscurando la carica di soggettività tipica del nuovo modo di fare il bene. Il volontariato vive se galleggia nel plancton di persone ordinarie disponibili al bene. Anche solo come piacere.

Fonte: laStampa.it

7 commenti

Libero

I laici fanno del bene per aiutare i loro simili, i cattolici per obbedire alla morale presunta “divina”.

Bruna Tadolini

Simili comportamenti positivi al di fuori della famiglia si osservano anche fra animali superiori. Quindi le radici di questa moralità istintiva extrafamiliare sono molto antecedenti all’umanità e l’evoluzione umana li ha solo molto arricchiti.
In che modo sono comparsi questi comportamenti e come la selezione naturale li ha giudicati favorevolmente?

La soluzione si chiama altruismo reciproco e non fu trovata da Darwin che, a sua discolpa, non aveva a disposizione un computer e non conosceva la game theory!
Questa teoria è stata sviluppata negli anni 20 e 30 del secolo scorso per studiare il “prendere decisioni” ed è diventato popolare in economia e negli studi sociali. Nel 1971 Robert Trivers pubblicò un articolo intitolato “The evolution of reciprocal altruism” la cui conclusione, fra l’altro diceva che “l’amicizia, l’antipatia, l’aggressione moralistica, la gratitudine, la simpatia, la fiducia, il sospetto, il valore che si da alla fiducia, i vari aspetti della colpa ed alcune forme di disonestà ed ipocrisia possono essere spiegate come importanti adattamenti per regolare il sistema altruistico”. I dati che da allora si sono accumulati supportano questa teoria.
Per poter applicare gli strumenti della game theory all’evoluzione del comportamento umano devono essere definiti alcuni punti/obiettivi. Il primo è lo scopo del gioco che nel nostro caso dovrebbe essere la massimizzazione della proliferazione genetica (per la vita solo chi si riproduce si evolve!). Secondo, il contenuto del gioco dovrebbe rispecchiare l’ambiente ancestrale della società dei cacciatori/raccoglitori in cui si è evoluto questo comportamento. Una volta trovata la strategia ottimale, l’esperimento non è finito ma, per terzo bisogna individuare quali sentimenti sono in grado di spingere gli essere umani a condurre a buon fine la strategia. Quei sentimenti, in teoria, devono essere parte della natura umana e dovrebbero essersi evoluti generazione dopo generazione per meglio condurre il gioco evolutivo. Trivers utilizzò un gioco classico detto “il dilemma del prigioniero”. Due complici di un crimine sono interrogati separatamente a devono prendere una difficile decisione. Lo Stato non ha le prove per condannarli per il grave reato che hanno commesso ma ha abbastanza prove per condannarli entrambi per un reato inferiore, diciamo un anno di prigione per entrambi. Il pubblico ministero, che vuole una sentenza esemplare, li pressa individualmente perché confessino implicando il complice. E dice a ciascuno: Se tu confessi ma il tuo complice no, io ti lascio libero e uso la tua testimonianza per condannarlo a 10 anni. L’altra faccia dell’offerta è: Se non confessi ma confessa il tuo complice, vai tu in prigione per 10 anni. Se confessate entrambi vi mando in galera entrambi ma solo per tre anni!
Se fossimo nei panni di entrambi i prigionieri e potessimo soppesare le offerte, quasi certamente decideremmo di confessare “incastrando” il partner. Dapprima supponiamo che sia il partner ad incastrare noi; in questo caso è meglio che anche noi lo facciamo: prenderemmo tre anni di prigione anziché i 10 che ci toccherebbero se stessimo zitti mentre lui confessa! Immaginiamo ora che lui non ci tradisca. Anche in questo caso ci conviene incastrarlo: confessando mentre lui tace, noi saremmo liberi mentre ci toccherebbe un anno se anche lui confessasse. Quindi la logica sembra irresistibile: tradisci il tuo complice!
Ma se entrambi i prigionieri seguono questa logica e si tradiscono l’un l’altro, finiscono col fare tre anni di carcere mentre se fossero stati entrambi con la bocca chiusa se la sarebbero cavata con un anno!
Se solo avessero avuto la possibilità di comunicare e di raggiungere un accordo, la cooperazione avrebbe potuto, se non salvarli, certo aiutarli. La cooperazione è quindi vantaggiosa. Ma come ottenere la cooperazione, cioè io aiuto te se tu aiuti me, cioè ripagare gli altri? Come far sì che animali “stupidi” possano anche solo capire il concetto di “ripagare” che permetterebbe l’evoluzione dell’altruismo reciproco?
Tradire un complice mentre lui è leale è come beneficiare di un atto di altruismo e non rendere il favore. Il mutuo tradimento è come se nessuno dei due facesse un favore per primo: sebbene entrambi beneficerebbero dell’altruismo reciproco nessuno vorrebbe rischiare di “bruciarsi”. Per avere il mutuo altruismo ci vuole un favore e che tale favore sia reso. Ma chi garantisce che il favore sia reso?
Nel caso del gioco dei prigionieri, poiché essi non possono comunicare, non ci sarebbe storia ma se essi potessero ripetere il gioco più volte ed imparare da ciò che è successo nelle volte precedenti, si premierebbe un comportamento di un complice che in passato si è dimostrato leale! Ma se si fosse dimostrato traditore verrebbe ripagato della stessa merce!

Un tale Robert Axelrod pensò di utilizzare il computer per trovare la soluzione. Egli invitò degli esperti di game theory a proporre un programma che contenesse una strategia di comportamento per risolvere il dilemma del prigioniero nella versione in cui il gioco si ripete più volte per poter imparare da ciò che è successo nelle volte precedenti. Poi fece competere i diversi programmi. Il risultato di ogni incontro/scontro veniva memorizzato ed i programmi/comportamenti si potevano aggiustare in base ai risultati passati. Dopo che ogni programma aveva avuto 200 incontri/scontri con ogni altro Axelrod dette dei punteggi e definì il vincitore. Poi fece una seconda competizione: ciascun programma fu utilizzato la seconda volta in proporzione al successo che aveva avuto nella competizione di prima generazione: insomma i programmi migliori era come se avessero dato più progenie e cioè fossero sopravvissuti di più. Ed andò avanti così generazione dopo generazione.
Se la teoria dell’altruismo reciproco era corretta, ci si sarebbe aspettati di vedere l’altruismo reciproco evolvere dentro al computer di Axelrod, fino a dominare tutta la popolazione. Se lo avesse fatto, il programma vincitore avrebbe contenuto la strategia migliore per raggiungere il risultato desiderato!
Il programma vincitore, proposto da un canadese Anatol Rapoport si chiamava TIT FOR TAT (TFT) che in italiano si traduce OCCHIO PER OCCHIO!!!! Ed era il programma più semplice, solo cinque righe di programmazione. Essendo semplice, se fosse comparso per casuali mutazioni nel computer, sarebbe stato fra i primi a comparire.
Questo programma ad ogni incontro/scontro con un altro programma avrebbe cooperato, avrebbe fatto, cioè, quello che l’altro aveva fatto in precedenza: se fosse stato buono sarebbe stato buono, al contrario, se fosse stato cattivo sarebbe stato cattivo. Gli aspetti positivi di questa strategia sono semplici come la strategia stessa. Se l’altro programma dimostra la tendenza a cooperare, TFT stringe amicizia ed entrambi traggono vantaggio dai frutti della cooperazione. Se l’altro programma tende a tradire, TFT taglia le perdite: interrompe la cooperazione fino a quando l’altro programma non “rinsavisce”. In questo modo TFT non rimane sempre vittima, cosa che si verificherebbe se fosse indiscriminatamente cooperativo. Questo programma evita anche il triste destino dei programmi indiscriminatamente non-cooperativi che cercano di sfruttare gli altri programmi: essi venendo costantemente traditi dai programmi che vorrebbero tradire si devono rassegnare, per sopravvivere, a cooperare. Naturalmente TFT rinuncia ai lauti guadagni una tantum che potrebbe avere con la strategia dello sfruttamento. Ma le strategie basate sullo sfruttamento tendevano ad essere spazzate via man mano che il gioco proseguiva. Infatti gli altri programmi a loro volta non erano “gentili” con questi programmi “sfruttatori” che così perdevano sia il grande guadagno dello sfruttamento che il più modesto guadagno della mutua cooperazione.
Questo programma TFT è un programma, non un essere intelligente, non capisce cosa significhi “fa agli altri quello che vuoi sia fatto a te stesso” ma lo fa. Non c’è bisogno di capire, quindi, per avere un comportamento di reciprocità. Basta avere un circuito che ti fa essere reciproco.

Per chi ne volesse sapere di più sull’evoluzione del comportamento suggerisco “The moral animal. Why we are the way we are” di Robert Wright

PaleAle (Alessandro)

>Può essere un po’ egoistuccio. Questo fare del bene è qualcosa di diverso dalla bontà;

Questa affermazione mi sembra propio gratuita e stupida: allora per fare ‘del bene’ bisogna solo essere altruisti nonostante se stessi? Qual’è allora la definizione di bontà? Mah!

Fabris

Oltre alle spiegazioni socio-biologiche, per se estremamente interessanti, è possibile anche un semplice ragionamento logico.

Se io non credo in Dio e faccio del bene, l’unica ricompensa può venire solo dagli altri esseri umani, a parte naturalmente il sentirsi felici per il fatto in sè di aver fatto del bene.

Se io credo in Dio e faccio del bene, la ricompensa può venire dagli altri esseri umani e dal Dio in cui credo (evtl. con conseguenti benefici per l’aldilà, se previsti dalla specifica religione).

Quindi chi non crede e fa del bene, a parità di sincerità e obiettiva quantità e qualità del bene fatto, sarà sicuramente più altruista di coloro che credono, proprio perché la ricompensa possibile e/o immaginata sarà in ogni caso inferiore, mancando appunta quella del presunto/creduto Dio.

Soqquadro

Io quando faccio del bene a qualcuno è per toglierlo dalla sofferenza (nel possibile) o dargli un po’ di gioia. Punto.

Bruna Tadolini

x Pantzini

Grazie dell’indicazione, mi sarà molto utile. Peccato che nessuno ci abbia messo i sottotitoli in italiano.

Ragazzi, siano tutti istintivamente altruisti (e questo è un grande argomento perchè vuol dire che anche gli atei hanno una morale!). I sentimenti che proviamo guando facciamo il bene sono comuni a tutti perchè proprio i sentimenti sono gli strumenti genetici che l’evoluzione ci ha infilato in testa per farci fare, come individui, ciò che è bene per noi e, di conseguenza, per la nostra specie….

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