Le campagne d’opinione sono un marchingegno collaudato, sia che puntino a far digerire i Dico, che vengano attivate per rendere gradevole l’eutanasia, o vogliano spianare la strada alla selezione dei bebè. Si comincia col classico tema del caso umano o dell’ingiusta discriminazione, a seguire parte la nobile declamazione del nuovo diritto da conquistare, che presto porta in dote la ragionevole proposta di legge. Questa va appoggiata con interviste a intellettuali, politici, gente di spettacolo, mentre chi prova a opporsi viene adeguatamente ridicolizzato. Infine si passa all’incasso contando sul fatto che il Paese, stordito da tanta apparente unanimità di voci, memorizzi qualche parola d’ordine, una frase ben congegnata, la calibrata irrisione dei dissenzienti. E lasci fare per ignavia, sfinimento, o per non sembrare “intollerante”. Il sondaggio che dà per schiacciante la richiesta della nuova frontiera di libertà suggella il trionfo della sinfonia mediatica. Tutto perfetto, protagonisti e comparse ormai eseguono ogni movimento a memoria.
Ma il meccanismo ha un piccolo, odioso difetto di progettazione, che proprio non si riesce a correggere. Ogni volta è la stessa storia: i fatti si infilano come sabbia molesta tra i meccanismi così ben oliati, e il congegno inizia a perdere colpi per effetto di una realtà che – senza alcun senso dell’opportunità – proprio non si rassegna a farsi da parte.
Prendete i registri comunali per le coppie di fatto, il “laboratorio” già da tempo in funzione per sperimentare la presa sociale del riconoscimento pubblico di diritti ai conviventi. I Dico, dati per attesi da «milioni di italiani» – altro non sono, in buona sostanza, che una proiezione su scala nazionale di questa soluzione municipale. Quando però si prende il disturbo di guardare come stanno realmente le cose, la favola si smonta in modo persino imbarazzante. Dal 1993, allorché Empoli strappò la palma di primo Comune a dotarsi di un registro, la pressione sul Paese perché ac cetti l’equiparazione tra famiglie e coppie di fatto è diventata progressivamente asfissiante. Ovunque il registro sia stato introdotto, s’è fatto precedere dal rombo dei tamburi mediatici. Per ottenere cosa? Quattrodici anni e tonnellate di articoli dopo, una media di molto meno di 10 coppie registrate per ogni Comune entrato nell’era dei “nuovi diritti”. Tra paesi e metropoli, su 24 Comuni esaminati in tutto si conteggiano 154 coppie che hanno bussato alla porta dell’anagrafe per farsi riconoscere come “famiglia di fatto”. In alcuni centri urbani s’è preferito soprassedere, mettendo in archivio il registro spesso ancora intonso. Anche i sondaggi voltano le spalle ai cantori delle nuove libertà e si mettono a dire che nella testa e nel cuore degli italiani ben altre sono le «priorità». Come si evince dalla tabella curata ieri da Renato Mannheimer per il Corriere della Sera (e da questo mimetizzata sotto un titolo che parla d’altro), il 93% degli italiani chiede la riduzione delle tasse, tra il 92 e l’82% gli investimenti nella scuola, la riforma delle pensioni e l’impegno per il Sud. E i Dico? In fondo alla classifica, al dodicesimo posto, è difficile rubricarli come «priorità» anche perché a volerli è lo stesso 47% di quanti invece sostengono che siano «poco importanti» o «da non fare». Molto più su, al terzo posto, si affaccia invece la richiesta di «politiche per la famiglia», reclamate da 89 italiani su 100. Un bello smacco.
I numeri sono impietosi, come i fatti. A metterli insieme, è difficile non porsi qualche domanda: fatte salve le rispettabilissime 154 coppie (per un totale di 308 italiani), vuoi mettere che dei Dico stringi stringi non interessi niente a nessuno? […]
Il testo integrale dell’articolo di Francesco Ognibene è stato pubblicato su Avvenire.it
se sono una cosa così da poco perchè la chiesa è così preoccupata?
Quindi mi chiedo: perchè opporsi con tanta forza ad un’istituzione così poco richiesta? Che questi signori si dacidano, o sono la distruzione della famiglia “””naturale”””, o sono assolutamente ininfluenti. Ma si sà che la coerenza non èuna loro virtù! Mi ricordo un discorso simile apparso un paio di mesi fa sull’eutanasia in Olanda. Anche allora si diceva che le richieste erano molto inferiori alle aspettative di quelli che erano favorevoli. Come allora dico: “è appunto per dare, a chi lo vuole, un diritto che ci battiamo, mica per obbligare nessuno”.
Forse dipende dal fatto che sono abituati a pensare a se stessi; a loro sì che piace obbligare. Bhè, sappiate che c’è anche chi non sente il bisogno di dire ad altri come vivere, o morire!
E’ un normale dato sanitario che coloro che necessitano di eutanasia siano molti meno degli individui sani che possono esprimere un parere. (Ma il fatto che i malati terminali siano pochi non dovrebbe rallegrarli?)
Quindi se sono “insignificanti” allora non sono “distruttivi per la famiglia”… vero?