Intervista a Bagnasco su “Avvenire”

[…] In questi giorni lei ha “fatto notizia”: come si è sentito accolto dall’opinione pubblica?
Nella sostanza molto bene, e devo dire che la cosa mi ha anche sorpreso. Posso immaginare che non sarà sempre così, ma fa parte del servizio che mi è stato affidato. Ha pesato nei giudizi certo anche la successione a una personalità così capace e autorevole come il cardinale Ruini, che ha segnato la Chiesa in Italia per vent’anni. Raccogliere il testimone da una figura sim ile è una responsabilità grandissima, davanti alla quale mi sento umanamente inadeguato. È Dio però che conduce la Chiesa, ogni uomo porta ciò che ha e che è. Per questo mi sento sereno e fiducioso. Come dissi mesi fa entrando a Genova, desidero essere me stesso, senza impegnarmi a “copiare” i miei predecessori.

Il giorno dopo la nomina lei ha fatto per la prima volta il suo ingresso nella sede della Cei a Roma come presidente. Che cos’ha pensato?
Ho notato anzitutto la grande simpatia con la quale sono stato accolto da tutti. Penso al segretario generale monsignor Betori, al quale mi legano un’amicizia e una stima consolidate. Betori costituisce per me uno straordinario punto di forza. Poi ho incontrato i direttori e collaboratori, sentendo tra tutti un grande calore, espresso con semplicità e senza l’ombra di un pregiudizio. E in un istante ho compreso il loro amore per la Chiesa.

Quali pensieri la stanno accompagnando in questi giorni?
La notizia della nomina me l’ha data lo stesso Santo Padre. La mia prima reazione è stata di grande sorpresa e insieme di gratitudine, mi sentivo come confuso davanti al compito che mi veniva prospettato. Ho però avvertito con forza tutta la sua fiducia. Ho coscienza della grande responsabilità verso i miei confratelli: devo servire la comunione e la fraternità episcopale. Vedo la gravosità del compito anche nell’importanza di questo momento storico, con i tanti e delicati appuntamenti che attendono sia la Chiesa sia l’Italia.

Qual è il volto della Chiesa italiana oggi?

È una Chiesa sempre più consapevole della propria fede, della necessità di annunciare il Vangelo e di essere presente come lievito nella storia del nostro Paese, rispettosa ma incisiva, per il suo bene, com’è dovere di ogni singolo cristiano. La dimensione pubblica della fede cristiana, in termini di servizio e di chiarezza, è coessenziale sia alla sua natura ecclesiale sia al suo rilievo nella vita di ciascuno. È in questo se nso che la Chiesa italiana sta molto crescendo. Certo, questa fede va ancora molto consolidata per renderla più pensata, più fondata sulle sue ragioni profonde. Ma la Chiesa italiana sa che è suo compito proporre oggi quella stessa fede a tutti, propagando ancora la gioia che essa reca con sé.

È prematura qualsiasi considerazione programmatica. Può però abbozzare un’idea che ritiene più necessaria ora?
La storia non nasce con noi, per fortuna. Sono consapevole di dover raccogliere come meglio posso la ricchezza di chi mi ha preceduto, con alcuni criteri. Anzitutto penso alla fisionomia intrinseca della Cei, che è una struttura di comunione, di fraternità episcopale e di servizio ai vescovi nelle loro diocesi. Qui ci sono criteri da confermare con molta determinazione, in collaborazione con tutti i vescovi, per servire le Chiese locali. La Cei è un luogo di elaborazione comunitaria delle grandi linee pastorali, secondo la prassi ormai consolidata e fruttuosa degli orientamenti decennali. Naturalmente queste coordinate pastorali sono poi assunte dai singoli vescovi nelle rispettive diocesi, con una responsabilità che è loro propria e non delegabile. La Cei non si sovrappone ai vescovi, è al loro servizio. Infine, fa parte della tradizione della Conferenza episcopale essere luogo per il discernimento della storia.

Che parola dice oggi la Chiesa italiana alla società?
Entro alla Cei in un momento, come questo che segue il Convegno ecclesiale nazionale di Verona dell’ottobre scorso, nel quale a guidarci è il mandato della speranza cristiana. Ci sono poi le urgenze che la storia di oggi propone alla Chiesa italiana e che ben conosciamo, con la doverosa promozione e difesa dei valori della vita, della famiglia, della libertà educativa, della giustizia e della pace. È in tutto questo che occorre riportare la speranza cristiana.

Lei raccoglie il testimone dal cardinale Ruini. Quali elementi della sua eredità vuole fare suoi?
Due su tutti. Anzitutto il suo approccio a qualunque tipo di problema, che è sempre stato sostanzialmente pastorale. C’è poi la grande intuizione del Progetto culturale che al cuore ha la questione antropologica. Ruini c’è arrivato prima di tutti, nel ’94: già allora aveva capito che la cultura italiana sarebbe andata a misurarsi sull’identità della persona umana. Tutte le questioni eticamente sensibili hanno alla loro radice la visione dell’uomo.

Quale sarà il suo stile nella conduzione della Cei?Tra le molte cose lette in questi giorni, c’è una parola nella quale mi riconosco: “serenità”. Mai lo scontro, ma fermezza sui princìpi. Il Papa ci dà l’esempio: garbato nel linguaggio, ma senza cedere su quello che conta. È lo stile di chi vuole rendere il servizio della chiarezza.

C’è un legame speciale tra la Chiesa italiana e il Papa. Che valore assume oggi?
La sua presenza in Roma e il peculiare rapporto con la nostra Conferenza episcopale è una grazia singolare. Il Papa è vescovo di Roma, e guarda all’Italia con un occhio e un cuore tutti particolari. Quindi il nostro riferimento a lui e alla sua parola per noi vescovi italiani è un dono straordinario di cui far tesoro.

Sempre più in Italia si guarda alla Chiesa come a un punto di riferimento. Come avverte questa attesa?
La sento nel contatto con la gente semplice, negli incontri, in lettere o e-mail. Anche non credenti ci incoraggiano a non recedere sui valori fondativi della società. La gente che ha buon senso – ed è la grande maggioranza – attende dalla Chiesa quella fermezza che a una parte dei media pare sconveniente, con un clamore su alcuni temi che a chi ha dimestichezza con la realtà pare del tutto sproporzionato.
Eppure c’è chi legge questo atteggiamento in senso opposto, come una minaccia…
Va sfatato il pregiudizio delle presunte “mire egemoniche”, come se la Chiesa volesse mettersi alla guida del Paese. Proprio perché non ha di mira se stessa è ancora più lib era per parlare del bene della persona e dunque della stessa società. Facendolo ad alta voce sui valori portanti, sempre nel rispetto di tutti, la Chiesa intende rendere un servizio alla verità della persona umana, che è il fondamento dello Stato e il cuore della redenzione. Il suo è un atto d’amore al Paese. Se cercasse la propria gloria asseconderebbe la corrente, non la risalirebbe.

Anche tra i credenti fa breccia l’idea che non si può impedire ad altri quello che contrasta con i propri valori. Come giudica questo atteggiamento?
È un criterio sbagliato, sul quale però ho l’impressione che ci sia un po’ di ripensamento. Si comincia a comprendere che l’applicazione dell’individualismo alla fine va contro il bene di tutti. Anche nella storia recente la Chiesa ha sempre proclamato e difeso la libertà responsabile dell’individuo, facendo scudo a ideologie totalitarie di qualsiasi matrice. Nel clima di iperliberismo individualista di oggi la Chiesa si trova invece a ricordare che quella libertà non è un assoluto: l’individuo non vive da solo ma è continuamente in relazione. Questo rovesciamento in realtà porta da un’ideologia a un’altra di segno opposto: non più l’individuo come ingranaggio di un meccanismo ma entità autosufficiente, sciolta da ogni legame.

La Chiesa richiama lo Stato ai suoi doveri, ma non tutti gradiscono…Va ricordato con chiarezza che le scelte individuali hanno sempre riscontri di carattere comunitario. Uno Stato deve difendere la libertà individuale insieme al bene comune, che non è la somma di tanti singoli vantaggi ma un organismo armonico retto sui valori capaci di creare il bene di tutti: la famiglia e il rispetto per la vita, la libertà di educare i figli e la libertà religiosa… Uno Stato che sta a guardare, per il quale tutto dipende esclusivamente dalle scelte dell’individuo, non ha in mente una categoria di bene comune.

Vale anche per la famiglia?
Certo. Legittimare qualsiasi istanza vuol dire andare contro un’esperienza millenaria, una tradizione universale: nella famiglia formata da uomo e donna e aperta a generare la vita l’umanità da sempre riconosce il luogo imprescindibile per la propria perpetuazione e per l’educazione alla vita stessa. La storia ci consegna questo patrimonio naturale, un dato oggettivo. La comunità sociale riconosce ogni nuova famiglia come soggetto importante, nucleo fondante della sua stessa sussistenza, e la tutela individuando in essa il requisito della stabilità e dell’impegno pubblico. I diritti derivano da questa funzione sociale. È interesse della società tutelare la famiglia, perché così facendo tutela anche se stessa. Ecco perché occorre insistere in tutte le sedi perché siano attivate efficaci politiche per un vero rafforzamento della famiglia come bene prezioso di un Paese.

Si fa un gran parlare della necessità di “nuovi diritti”…
Nessuna condanna per le convivenze, è inaccettabile invece creare un nuovo soggetto di diritto pubblico che si veda assegnati diritti e tutele in analogia alla famiglia. La legge ha anche una funzione pedagogica, crea costume e mentalità. I giovani già oggi disorientati si vedono proporre dallo Stato diversi modelli di famiglia e certo non vengono aiutati a diventare cittadini adulti. Molto di ciò che viene chiesto è già oggi garantito dal diritto privato, una via però rifiutata per creare un nuovo soggetto alternativo in nome di una pretesa ideologica.

Un altro nodo è quello relativo alla fine della vita. Su quale frontiera dovrà attestarsi la Chiesa?
Una società che codifica l’assoluta libertà di ciascuno su se stesso, ad esempio con l’autodeterminazione senza alcun limite rispetto alla morte, si pone sulla via dell’implosione: l’assoluta libertà sciolta da ogni vincolo è la premessa per qualsiasi forma di violenza, di sopraffazione, di conflitto. È necessario che la cultura di oggi – come le grandi culture del passato – torni a riconoscere il senso del limite. Noi cristiani la chiamiamo «creaturalità della persona», un non credente può trovare il limite nella coscienza di non poter essere padroni assoluti né degli altri né di se stessi. In nome di cosa si potrà dire che non possono essere concessi alcuni “diritti” reclamati da singoli o gruppi ma che la collettività riconosce come aberrazioni? Sciolta da valori oggettivi, che è compito di una società riconoscere, la libertà si rivolta contro se stessa.

In un Paese lacerato su tutto è ancora possibile trovare un accordo non al ribasso su questi princìpi?
Quando il Papa insiste sulla necessità di allargare gli spazi della razionalità intende dire che la ragione non va mortificata riducendola a strumento che tutt’al più indaga sul funzionamento delle cose. Sono anche altri gli spazi che la ragione può esplorare, come il senso della vita e del mondo, della gioia e del lavoro, del dolore e della morte. Dove poi la ragione trova un orizzonte decisivo è sul terreno della questione etica, la capacità cioè di riconoscere il bene e il male indagando razionalmente sui valori. Va recuperata la dimensione della natura umana oggettiva, contro la quale si vede all’opera un accanimento culturale da parte di un’ideologia che descrive l’uomo come costruzione culturale variabile. La conseguenza è la sostituzione di qualsiasi valore assoluto con interessi e desideri transitori, sui quali si consuma una divisione senza fine. Il diritto positivo, privato del suo fondamento nel diritto naturale, diventa terreno di affermazione della prepotenza.

Che cosa direbbe agli uomini che oggi reggono le sorti della nostra vita pubblica?
I politici che cercano il consenso rincorrendo alcuni aspetti parziali della società si allontanano dalla gente e dalla stessa idea del bene di tutti, oggi centrata sui grandi temi etici. La politica ha come scopo il bene comune, non l’inseguimento dei desideri.

Monsignor Bagnasco, come immagina la Chiesa italiana dei prossimi anni?
Una Chiesa ricca di speranza, entusiasta di annunciare Cristo all’uomo affaticato che attende proprio quel messaggio di speranza. La gente chiede ai cristiani e ai loro pastori un incoraggiamento per vivere la vita e affrontare la morte. La Chiesa di domani, impegnata per essere questo segno visibile di speranza, deve sempre più farsi madre e maestra. Oggi più che mai questi due volti sono inseparabili, perché la Chiesa sia davvero speranza per il mondo.

Il testo integrale dell’articolo di Francesco Ognibene è stato pubblicato sul sito di Avvenire

10 commenti

Nikky

“La chiesa richiama lo Stato ai suoi doveri”.
Ecco il problema, che richiamasse il suo di stato, non quello italiano.
Ancora non ha capito che deve starsene al posto suo.
Un’altra breccia, ecco quello che ci vorrebbe.
Tra laltro la santa chiesa non può permettersi proprio di richiamare lo stato, si chiama ingerenza e viola il concordato che è rispettato oramai solo da una parte.

Daniela M

“Lei raccoglie il testimone dal cardinale Ruini. Quali elementi della sua eredità vuole fare suoi?
Due su tutti. Anzitutto il suo approccio a qualunque tipo di problema, che è sempre stato sostanzialmente pastorale. ”

MA QUALE PASTORALE????!!!! Bagnasco sè fatta una canna prima di dire tali assurdità??? Ma se Ruini è sempre stato un politico….!! Ma siamo fuori??!!!
Tutta questa intervista è piena di cazzate dette da lui…

civis romanus sum

Bisogna modificare il codice penale alla voce omicidio , inserendo un premio a chi ammazza come cane un prete . Mi sembra doveroso per un atto di così alto valore umano .

Rosalba Sgroia

Bagnasco “La gente chiede ai cristiani e ai loro pastori un incoraggiamento per vivere la vita e affrontare la morte”

Il guaio e’ che molto spesso c’è molta gente che vuole essere lasciata in pace e non vuole alcun incoraggiamento dai pastori o dai loro servi, per vivere la vita e per affrontare la morte, ma puntualmente…viene da questi importunata, privatamente o attraverso la via politica…
Ne so qualcosa, e sapeste che rabbia.

Marja

L’ipocrisia della Chiesa: un generale(Bagnasco appunto), un membro delle forze armate, che attendono a quell’operazione chirurgica letale che è la guerra può diventare arcivescovo e capo della Cei, mentre anche un infermiere che semplicemente presta assistenza ad una interruzione di gravidanza per via chirurgica, incorre nella scomunica.
8-j

raphael

È Dio però che conduce la Chiesa

Gli schemi mentali sono sempre quelli si poteva dubitarne?

Marja

Ma in fondo chi meglio di un arcivescovo generale poteva rappresentare questa chiesa di militanti, i miliziani di cristo si preparano all’assalto…

ALESSIO DI MICHELE

Mi pare di ricordare un Bagnasco che, forse non per truffa ma almeno per errore, fece perdere negli anni ’80 (o ’70 ?) parecchi miliardi a risparmiatori italiani. Uomo avvisato…

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