Sul convegno che si è svolto il 29 e 30 marzo promosso dalla Commissione Sanità del Senato (“Testamento Biologico: le dichiarazioni anticipate di volontà sui trattamenti sanitari”) ci sarebbe molto da dire.
Per ora mi limito a riportare integralmente l’intervento di Javier Lozano Barragan.
Molto interessante, e molto inutile (sia in assoluto che rispetto alla utilità di un testamento biologico redatto secondo i 6 punti del cardinale).[…]
Testo integrale dell’articolo di Chiara Lalli sul blog Bioetica.it
A proposito di bioetica, ci tengo a segnalarvi http://jme.bmj.com/cgi/content/extract/31/10/606 .
Un abstract è acccessibile gratuitamente su http://tinyurl.com/2ha42y .
Dall’articolo: “[Le cure palliative] Facilitano una morte degna e cosciente, eliminando quell’eventuale dolore che non permette lo stato psicologico e spirituale adeguato per poter oltrepassare la soglia verso la pienezza della vita.”
Assurdo! Questa frase misconosce e rinnega l’esistenza di una pena che trascende quella fisica: la pena dell’assistere impotenti alla propria dissoluzione.
Se, per chi crede nella morte come fase di transizione verso un eterno proseguimento della vita, quella dissoluzione può sembrare di poco conto, così non è per chi, come me, nega il dualismo corpo-anima. Assistere alla dissoluzione del fisico è, per me, equivalente all’assistere alla dissoluzione della mia stessa sostanza, alla dissoluzione del “me stesso”.
Arrogarsi il diritto di impedire a chicchessia di evitare quella pena è un atto di barbarie estrema. Arrogarsi il diritto di sostenere che, per tutti, eliminando il dolore fisico si è eliminato il dolore in toto equivale a condannare molti ad una inutile tortura. La sofferenza è un fatto fortemente soggettivo e non può essere oggettivizzata. La vita ci viene imposta al concepimento, con il suo inevitabile corredo di sofferenza e morte. Quanto meno, affermiamo che LA VITA E’ DI CHI CE L’HA, E OGNUNO DEVE POTERNE DISPORRE COME CREDE, se ritiene anche interrompendola, senza pastoie di alcun genere e nel modo più esente da pena che la tecnologia medica è in grado di provvedere.
Sapere che quel diritto è garantito (fermo restando che chiunque può decidere di non usufruirne) renderebbe più lieve la consapevolezza della fine inevitabile e, in ultima analisi, permetterebbe a ciascuno di vivere in modo più lieto la vita che gli è stata imposta. Non è bello passare l’esistenza assistendo alla tortura dei propri cari, per di più immaginando in un angolo remoto del nostro cervello che una tortura di quello stesso genere potrebbe toccare a noi in un futuro più o meno prossimo.
Una piccola riflessione:
vorrei capire, con quale coraggio razzy & company – inclusi i cattolici fondamentalisti e non- dicono che il vaticano e la quindi la chiesa non fanno politica e non commettono ingerenze..
– Hanno dato il dictat sulla fecondazione assistita…
– / / / / sui Dico…
-/ / / / sull’eutanasia
./ / / / sul testamento biologico
..La lista è lunga…
Dall’articolo: “[Le cure palliative] Facilitano una morte degna e cosciente, eliminando quell’eventuale dolore che non permette lo stato psicologico e spirituale adeguato per poter oltrepassare la soglia verso la pienezza della vita.”
Assurdo! Questa frase misconosce e rinnega l’esistenza di una pena che trascende quella fisica: la pena dell’assistere impotenti alla propria dissoluzione.
Se, per chi crede nella morte come fase di transizione verso un eterno proseguimento della vita quella dissoluzione può sembrare di poco conto, così non è per chi, come me, nega il dualismo corpo-anima. Assistere alla dissoluzione del fisico è, per me, equivalente all’assistere alla dissoluzione della mia stessa sostanza, alla dissoluzione del “me stesso”.
Arrogarsi il diritto di impedire a chicchessia di evitare quella pena è un atto di barbarie estrema. Arrogarsi il diritto di sostenere che, per tutti, eliminando il dolore fisico si è eliminato il dolore in toto equivale a condannare molti ad una inutile tortura.
La sofferenza è un fatto fortemente soggettivo e non può essere oggettivizzata. La vita ci viene imposta al concepimento, con il suo inevitabile corredo di sofferenza e morte. Quanto meno, affermiamo che LA VITA E’ DI CHI CE L’HA, E OGNUNO DEVE POTERNE DISPORRE COME CREDE, se ritiene anche interrompendola, senza pastoie di alcun genere e nel modo più esente da pena che la tecnologia medica sia in grado di provvedere.
Sapere che quel diritto è garantito (fermo restando che chiunque può decidere di non usufruirne) renderebbe più lieve la consapevolezza della fine inevitabile e, in ultima analisi, permetterebbe a ciascuno di vivere in modo più lieto la vita che gli è stata imposta dai genitori. Non è bello passare l’esistenza assistendo alla tortura dei propri cari, per di più immaginando in un angolo remoto del nostro cervello che una tortura di quello stesso genere potrebbe toccare a noi in un futuro più o meno prossimo.
Un mio commento più articolato alle parole di Javier Lozano Barragan è “sparito” per ben due volte. Che significa?
Facciamo che ci riprovo per la terza volta, chissà che passi…
Dall’articolo: “[Le cure palliative] Facilitano una morte degna e cosciente, eliminando quell’eventuale dolore che non permette lo stato psicologico e spirituale adeguato per poter oltrepassare la soglia verso la pienezza della vita.”
Assurdo! Questa frase misconosce e rinnega l’esistenza di una pena che trascende quella fisica: la pena dell’assistere impotenti alla propria dissoluzione.
Se, per chi crede nella morte come fase di transizione verso un eterno proseguimento della vita quella dissoluzione può sembrare di poco conto, così non è per chi, come me, nega il dualismo corpo-anima. Assistere alla dissoluzione del fisico è, per me, equivalente all’assistere alla dissoluzione della mia stessa sostanza, alla dissoluzione del “me stesso”.
Arrogarsi il diritto di impedire a chicchessia di evitare quella pena è un atto di barbarie estrema. Arrogarsi il diritto di sostenere che, per tutti, eliminando il dolore fisico si è eliminato il dolore in toto equivale a condannare molti ad una inutile tortura.
La sofferenza è un fatto fortemente soggettivo e non può essere oggettivizzata. La vita ci viene imposta al concepimento, con il suo inevitabile corredo di sofferenza e morte. Quanto meno, affermiamo che LA VITA E’ DI CHI CE L’HA, E OGNUNO DEVE POTERNE DISPORRE COME CREDE, se ritiene anche interrompendola, senza pastoie di alcun genere e nel modo più esente da pena che la tecnologia medica sia in grado di provvedere.
Sapere che quel diritto è garantito (fermo restando che chiunque può decidere di non usufruirne) renderebbe più lieve la consapevolezza della fine inevitabile e, in ultima analisi, permetterebbe a ciascuno di vivere in modo più lieto la vita che gli è stata imposta dai genitori. Non è bello passare l’esistenza assistendo alla tortura dei propri cari, per di più immaginando in un angolo remoto del nostro cervello che una tortura di quello stesso genere potrebbe toccare a noi in un futuro più o meno prossimo.