Famiglia: dov’è la perla?

Non sono andato al Family Day eppure sono debitore alla mia famiglia di un percorso di crescita e di libertà e resto profondamente grato alle figure di riferimento che mi hanno proposto, con amore gratuito, valori e significati. Perché non ci sono andato?
Forse la risposta più semplice e più breve sarebbe nel dire che il sostegno della «forma famiglia» nella sua identità sociale non ha bisogno di manifestazioni di piazza ma di una seria riflessione e di un diffuso e permanente sforzo, per irrobustire i soggetti che si accingono a formare una famiglia.
In una società che favorisce e premia solo l’individuo consumatore cresce fra i giovani l’irresponsabilità e la fragilità dei soggetti, gli impegni sono vissuti in modo leggero e le relazioni affettive sono condizionate da mille ammiccamenti e sollecitazioni.
Come sperare che l’istituzione famiglia possa fare il miracolo di dare stabilità a chi è cresciuto nella competizione e nell’arrivismo? Non credo che siano i corsi prematrimoniali delle parrocchie, la predica del ministro di culto o il discorsetto del sindaco ad avere la forza per creare l’autenticità e la stabilità delle relazioni. O i due, nuotando a bracciate nel mare di una società frivola, hanno costruito il rapporto da soli oppure la precarietà di questo è sotto gli occhi di tutti.
Anzitutto proviamo a sgomberare il campo dal singolare «famiglia».
Le forme culturali di famiglia che si sono costituite nel complesso del tessuto sociale sono diverse e mutevoli e a tutte compete in qualche modo la definizione di «naturale». Caratteristica riscontrabile nelle diverse forme è il «consorzio», cioè la condivisione della buona o cattiva sorte nelle vicende della vita. Il legame che unisce le persone unite nel patto consortile è più forte del dolore e della morte. Nei momenti più alti e più forti è un rapporto di amore ma sempre è un rapporto di fedeltà e condivisione.
Gesù di Nazareth, per quanto sappiamo dai vangeli, ebbe due famiglie: quella di nascita e quella di elezione.
La famiglia di nascita, anche se non fu una «sacra famiglia» come vuole l’icone, fu certo una «famiglia buona», socialmente integrata nel contesto locale. Lo dimostra il fatto che quando Gesù esce dalle acque del Giordano, spinto dallo spirito, e comincia la sua missione, la famiglia lo insegue e cerca di riportarlo a casa perché si diceva che «era diventato pazzo» (Mc 3, 21). Questa è una reazione buona e perfettamente approvabile dai maestri della legge e dal contesto sociale.
Intorno a Gesù si forma peraltro un’altra famiglia, quella di coloro che ascoltano e fanno la volontà del Padre. «Chi è mia madre e i miei fratelli… se uno fa la volontà di Dio, è mio fratello, mia sorella e mia madre» (Mc 3, 34).
Col tempo, probabilmente, la buona famiglia naturale si è diluita nella comunità dei discepoli che lo seguivano, uomini e donne, nel suo peregrinare per la Galilea e la Giudea o lo attendevano in una casa ospitale a Betania.
Nel vangelo di Giovanni questo approdo è sintetizzato simbolicamente nelle parole pronunciate dalla croce rivolgendosi a sua madre e al discepolo che amava «Donna, ecco tuo figlio. Poi disse al discepolo “ecco tua madre”. Da quel momento il discepolo la prese in casa sua» (Gv 19, 26-27). La madre che a Cana si era preoccupata del successo di un pranzo familiare, scesa dal gradino di madre naturale, aveva raggiunto coloro che non si erano neanche accorti che il vino «era buono» ma avevano creduto: «e i discepoli credettero in lui» (Gv 2,11).
Se Gesù non è un buon esempio per coloro che tengono alla stabilità sociale, lascia peraltro, almeno a coloro che lo hanno seguito per fede, un insegnamento condivisibile da tutti: il cuore del consorzio familiare è nell’amore fra persone che condividono, con empatia e fedeltà, la stessa strada. Intorno a questa asse il resto si assesta. Di fronte al primato dell’amore il fatto che la coppia sia etero-sessuale o omo-sessuale sembra, oggi, del tutto irrilevante
I vertici della chiesa cattolica italiana stanno disertando il loro compito pastorale di predicare il vangelo dell’amore; amore diventato raro nella nostra arida società consumista. Vorremmo vederli intenti in una pastorale – magari ecumenica – che predisponga i fedeli a vivere con purezza – ma purezza è qualche cosa di diverso e di più della castità – la loro preparazione alla vita di coppia e di famiglia. Eccoli invece a difendere i principi. Questa non mi sembra una posizione evangelica ma piuttosto una posizione che rivendica una identità autoritaria. Non avendo il coraggio di riformulare una etica sessuale che faccia emergere come centro del rapporto l’amore, il rispetto, la comunicazione e la condivisione delle responsabilità verso la famiglia che si intende costituire e verso la comunità, si arroccano su principi impraticabili ignorando che la stragrande maggioranza delle persone li disattende. Stanno praticando quello che alcune chiese fondamentaliste americane avevano chiamato: identità di Moral Majority. Dato per scontato che la maggioranza delle persone non praticano più e disattendono i precetti della morale sessuale tradizionale non resta che costituirsi in maggioranza morale. Tanto le masse degli ultras degli stadi, dei ragazzi della febbre del sabato sera o dei branchi di sbandati che si divertono a fare violenza e a filmarla coi cellulari non hanno un’etica presentabile e quindi non sono competitivi.
Questa posizione è pericolosa. Predicare dai pulpiti principi rigorosi e ignorare che il vero pericolo, che dovrebbe unire tutti, è il dilagare del consumismo sessuale è una vera stoltezza. Lo tzunami dell’usa e getta potrebbe travolgere anche i figli dei rigorosi.
A questo punto emerge il problema: perché, invece di lagnarsi solo delle invasioni di campo dei vescovi nei confronti della laicità dello Stato, non riempire il vuoto con proposte in positivo? Anche noi, protestanti e cattolici non allineati o criticamente allineati, femministe e ambientalisti, omosessuali credenti o non-credenti abbiamo i nostri valori irrinunciabili. Perché non elaborare dei percorsi e dei linguaggi comuni? Perché non recepire il formarsi di una spiritualità inclusiva e di una gestualità recepibile?
Meglio fare, col rischio di sbagliare e di doversi correggere. che assistere inerti e rassegnati a quanto capita.

Articolo di Giovanni Franzoni pubblicato su Riforma

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5 commenti

Daniela M

bravo Dom Franzoni!!! Lui sì che ha capito lo spirito del vangelo..
Magari fossero tutti come lui dentro il cristianesimo!

Ren

Infatti, finalmente delle riflessioni in positivo, non solo una serie di NO su tutti gli aspetti della società civile.

Vogliamo vivere in una società moderna e civile, non impuzzolentita dall’incenso clericale.

Carlo

Riflessioni condivisibili e sensate, nonche’ logiche. Basta coll’isteria, serve educazione, cultura e rispetto.

Nickelgrey

“A questo punto emerge il problema: perché, invece di lagnarsi solo delle invasioni di campo dei vescovi nei confronti della laicità dello Stato, non riempire il vuoto con proposte in positivo? Anche noi, protestanti e cattolici non allineati o criticamente allineati, femministe e ambientalisti, omosessuali credenti o non-credenti abbiamo i nostri valori irrinunciabili. Perché non elaborare dei percorsi e dei linguaggi comuni? Perché non recepire il formarsi di una spiritualità inclusiva e di una gestualità recepibile?
Meglio fare, col rischio di sbagliare e di doversi correggere. che assistere inerti e rassegnati a quanto capita.”

Ma mi chiedo… questo… VIVE SU MARTE?

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