C’è un uomo che – pare – chiede di morire: soffre troppo, e da troppo tempo, e dice che non ce la fa più. Una domanda umanissima, per quanto inaccettabile, che pretende una risposta all’altezza della sofferenza. Chinarsi sul letto dove un male inesorabile inchioda quell’uomo da anni, ascoltarne ogni parola – e quanto gli costa farsi intendere lui solo lo sa -, sforzarsi di capire quel che non dice, è una necessità che si impone a chiunque voglia interessarsi al suo caso senza la fretta di tirare le somme. Capire per aiutare davvero, se è aiutare che si vuole. Dovrebbero averlo per regola tutti quelli che si affaccendano attorno a Giovanni Nuvoli, il malato sardo di Sla che mercoledì ha chiesto di essere liberato da una vita divenuta per lui un peso intollerabile. Proprio ora che dal sintetizzatore vocale col quale Giovanni ha riacquistato almeno un briciolo di libertà di comunicare arriva l’eco inquietante di una volontà fiaccata dalla malattia è indispensabile sapersi muovere senza l’aria di chi ha già scritto il finale della storia e lavora – con grande cautela, ma con altrettanta determinazione – per vederlo realizzato. I medici che di Giovanni sono abituati a leggere ogni battito di ciglia conoscono bene quel paziente difficile ma tenace. Sanno che s’è afferrato sempre alla vita, e che se la presa ora sembra sfuggirgli è dovere di tutti fare ogni sforzo per aiutarlo a riprenderla. Per loro non è davvero pensabile doversi battere oltre che contro la malattia e la vertiginosa altalena degli umori che induce, sino alla depressione di queste settimane, anche con la barriera degli autoproclamati tutori della sua attuale volontà di morte. Non ha senso che sulla cartella clinica di qualsiasi paziente nella colonna delle eventuali complicanze si debba conteggiare un partito politico che entra nella stanza del malato e ne diventa portavoce esclusivo incoraggiandolo a mollare anziché dare una mano ai medici curanti, all’ospedale, alla medicina, alla sanità italiana, perc hé si trovi una risposta alla vera domanda di Nuvoli e di migliaia di malati dei quali è ideale portavoce, una volontà espressa nitidamente solo qualche giorno fa: «Non voglio soffrire». La liberazione che Giovanni invoca, immobile nel letto di casa, è da un dolore che vede senza fine né respiro. La scienza può dirgli, oggi, che se la Sla non dà scampo c’è però un apparato di cure in continua espansione che hanno restituito un poco di luce a tanti malati. A pochi chilometri da Nuvoli, paralizzato come lui e per la stessa malattia, Carlo Marongiu ha imboccato la strada della speranza grazie a migliaia di amici inattesi scoperti proprio da quel letto, e lo implora di saper guardare oltre il buio che l’ha sopraffatto. […]
Per questo ora, subito, dovrebbero fare un passo indietro tutti quelli che si sono accampati dentro questa vicenda umana per trasfigurarla mediaticamente in un nuovo caposaldo simbolico sulla mappa delle proprie battaglie. Un partito, o l’associazione che lo esprime, non vanta alcun titolo per scegliere i medici del collegio che sarebbe chiamato ora a decidere la sorte di Giovanni Nuvoli: a dire cioè se gli verrà ancora concessa una chance per vivere o sarà lasciato cadere in un tratto di strada reso scivoloso dallo scoramento. Eppure questa scelta arbitraria ieri ha dichiarato di averla già fatta l’associazione radicale Luca Coscioni (la stessa del caso Welby), neppure rivelando i nomi di questi giurati chiamati a una spaventosa sentenza di vita o di morte. Lascino la scena, allora: tutti i Giovanni d’Italia chiedono anzitutto rispetto, e che gli sia data almeno una speranza.
Il testo integrale dell’articolo di Francesco Ognibene è stato pubblicato sul sito di Avvenire