Piero Fassino continua a patire le tribolazioni del vecchio partito. Questo, ancorché sciolto, prosegue nella sua vita al tempo stesso grama e litigiosa. E a Fassino, al solito, sono toccati in settimana giorni difficili per via di quella scelta, né di qua, né di là, né a San Giovanni, né a piazza Navona, che non è piaciuta a nessuno, laico, cattolico o agnostico che fosse. Il trattamento peggiore, e il più iroso, il Fassino l’ha subito in verità dalla piazza laica, popolata di radicali veraci, quelli di Pannella, e di radicali nel senso di sinistrissimi, gli uni e gli altri incattiviti oltre misura negli ultimi tempi.
Il Fassino ha spiegato ai critici che il partito «si era messo in ascolto» delle due piazze, la cattolica e la laica, che dall’ascolto avrebbe tratto utili insegnamenti. Ascoltate le parole, e l’aria che tirava nei salotti perbene e fra i comici di Rai3, il nostro ha sciolto la riserva, e sarebbe stato meglio se non lo avesse fatto, ché ormai il peggio era passato. E invece i Ds si rifaranno dell’astinenza partecipando, al prossimo giro, alla «giornata del gay pride», a Roma in giugno. Una decisione che è parsa, a molti, giustamente, la classica toppa peggio del buco.
E del resto, le proteste della «piazza laica» che hanno impressionato i Ds erano tutte da mettere nel conto: non potevano risparmiarsele i socialisti di Boselli, che si sono costituiti a sinistra del Pd e che, più Cavallotti che Marx, puntano tutto su uno spiritaccio anti-clericale dal quale si aspettano molto. Non potevano esimersi i Mussi e gli Angius, che debbono pure spiegare perché mai abbiano lasciato i vecchi compagni per finire dalle parti di Diliberto.
Fatto sta che i Ds, decidendo di sfilare nel «gay pride» non hanno guadagnato in immagine fra i cattolici, e hanno avviato un inseguimento dei laicissimi che può portarli lontano, ai cartelli con su scritto: «Vatican = Taliban». E tutto per i Dico, argomento sul quale si misura l’ipocrisia di quella sinistra più a sinistra che strilla di più, e che in ogni caso continuerà a strillare. Se la legge si è bloccata al Senato, dove non bastano i numeri, la colpa è tutta di Prodi ed è con lui, non con Fassino, che dovrebbero prendersela i ministri Bonino, Pecoraro Scanio, Boselli e Turigliatto. Ricordo bene, come tutti, il percorso della legge Dico, che ebbe più di un aspetto stravagante. All’inizio della legislatura i partiti presentarono diverse proposte in Parlamento, affare loro, ma fu Prodi, esibendo un innaturale coraggio, a decidere che no, che sarebbe stato il governo a sbrogliare la matassa. […]
Il testo integrale dell’articolo di Arturo Gismondi è stato pubblicato sul sito de Il Giornale