[…] Un problema etico fondamentale nel rifiuto dei trattamenti è dato dall’eventuale intento suicidario del paziente. In coscienza, infatti, ciascuno conosce il motivo profondo per cui una determinata azione viene scelta e attuata; proprio sulla base di tale decisione, cioè della scelta dei fini, si può qualificare un atto morale come buono e cattivo.Un intento suicidario nel rifiuto della terapia è sbagliato in virtù della più generale illiceità morale del suicidio. Ho già avuto modo di intervenire su questo tema il 6 novembre 2006. In quella occasione, dicevo che “il suicidio è un atto disordinato e innaturale che da molto tempo le società civili hanno smesso […] di promuovere come formula accettabile di risposta ai più vari problemi esistenziali. Nella maggior parte dei casi rappresenta un segnale patologico, o comunque il segno di un disturbo profondo a livello psichico: sono più facilmente colpiti da pensieri suicidi i depressi dei sofferenti. Molti tra coloro che si uccidono avevano già tentato di farlo in precedenza, e per questo i sistemi sanitari attivano vari programmi di intervento e di recupero per rimuovere le cause degli atteggiamenti autolesivi nella popolazione. I contesti in cui il tasso di suicidi o di tentati suicidi è più alto viene considerato a livello sociologico un contesto problematico e difficile, e l’aumento di suicidi è comunemente ritenuto un problema sociale. Infine, il codice penale, che evidentemente non punisce il suicida, punisce l’istigazione al suicidio.
In altre parole, il male intrinseco al suicidio si percepisce chiaramente (peraltro anche con il semplice buon senso) in quanto si tratta di un atto contrario alla fondamentale tendenza dei viventi all’autoconservazione e strutturalmente anti-sociale. È un fenomeno intimamente connesso alla disperazione: la morte del suicida non è una morte serena, ma una morte disperata e angosciosa, a volte rabbiosa. Gioca talora nel suicida il senso di protesta verso tutto e tutti, e – secondo vari psicologi – anche una volontà punitiva nei confronti di altri. Tale fenomeno è particolarmente visibile nei tentati suicidi e nelle minacce di suicidio: si riscontra sovente il desiderio di ‘farsi notare’, di attirare l’attenzione su di sé, come reazione alla difficoltà di ottenere altrimenti amore e comprensione.
D’altra parte, è ragionevole che giunga all’ipotesi del suicidio proprio colui che non si sente amato. O colui che non riesce ad amare, ovvero che è completamente chiuso in se stesso. Infatti, la presenza di relazioni affettive profonde è fonte di forza, di serenità e di speranza in qualunque momento dell’esistenza e in qualunque situazione fisica. Anche nell’imminenza della morte. Che è quanto dire: la persona che mantiene relazioni d’amore autentico con altri affronta meglio la sofferenza inevitabile causata dal pensiero della morte, è facilitato ad accettare la morte stessa come un fatto ineludibile, può respirare un clima di pace che, pur nella solitudine che la morte produce, genera interiormente tranquillità.
La grave ingiustizia dell’atto suicida si riassume con chiarezza nel principio secondo cui la vita è un bene indisponibile, ovvero qualcosa che caratterizza in profondità il nostro essere e che non può pertanto essere eliminato, come accade invece di un bene che ci si procura autonomamente. […]
Il testo integrale dell’articolo di Claudia Navarini è stato pubblicato sul sito di Zenit