Il Gip Renato Laviola si sente in dovere di specificare che il respiratore è un sostegno vitale e non una terapia (come se un sostegno vitale potesse essere imposto!) e che non si poteva trattare di accanimento terapeutico perché il respiratore non era futile (“se io stacco il respiratore il paziente muore”, ma anche se non somministro dei farmaci il paziente muore). Futile = utile alla sopravvivenza. Tutto questo per negare che si potesse trattare, per Piergiorgio Welby, di accanimento terapeutico. Non è condivisibile il criterio della futilità come condizione per riscontrare un accanimento terapeutico, in quanto è centrale la volontà del paziente al riguardo (ah, vana speranza di oggettività!). Se un paziente ha espresso volontà contraria, qualunque sia l’oggetto della sua volontà, qualora venga costretto siamo di fronte ad un caso di accanimento terapeutico.
Ma il problema non è nemmeno questo, quanto piuttosto: posso o non posso decidere riguardo alla mia cura? Posso o non posso rifiutare trattamenti medici (o assistenziali)? Che cosa diventa un atto di carità quando viene imposto?
Articolo di Chiara Lalli pubblicato sul blog Bioetica
rispondendo alle tre domande di chiara lalli: direi che ho tutto il diritto di decidere della mia cura, di riufiutare trattamento medici, ed infine un atto di carità imposto è pura e semplice sopraffazione.
Se fosse un quiz a premi direi: Daniela batte 3 a 0 quelli che sono tentati di rispondere diversamente.
Mah per le gerarchie imperanti abbiamo il “diritto” come, quanto e dove dicono loro. Il medico ha l’obbligo di fornirti esclusivamente le cure che lorsignori decidono.
Far entrare in quelle zucche un concetto come “diritto inalienabile all’autodeterminazione” temo non sia possibile.
Non solo. Io direi che se soffro tanto e non ritengo abbia più senso andare avanti, non solo dovrei avere il diritto ad interrompere le cure ma addirittura ottenere di mettere fine ai miei giorni. Gli altri non dovrebbero avere parola in una cosa così intima.
sono d’accordissimo con ren, ovviamente sono anche a favore dell’eutanasia.
è inaccettabile che una persona non possa decidere su se e come soffrire o smettere di soffrire, ed è ancor meno accettabile che il potere legislativo di uno stato sovrano debba legiferare condizionato da uno stato estero.
Un giurista si interrogherebbe su quando il paziente è ancora in grado di esprimere compiutamente la propria volontà, non su questioni da teologi.
Avesse detto che Welby era incapace di intendere e di volere e quindi la sua volontà su un gesto irreversibile non poteva essere accolta … ci avrei pensato seriamente, ma questa motivazione basata sulla distinzione tra sostegno vitale e terapia mi sembra un po’ confusa
tra l’altro mi ricordo del caso in cui una signora decise di rifiutare l’amputazione di una gamba, nonostante questo la portasse a morte certa, cosa che in effetti successe, ebbene non fu possibile sottoporla obbligatoriamente alla cura, appunto per il rispetto del diritto sancito dalla costituzione. Non vedo per quale motivo questo non possa valere pure per Welby, visto che in ogni caso la sua malattia era irreversibile, mentre in quel caso se si fosse curata sarebbe riuscita a guarire, credo non sia possibile e assurdo anche giuridicamente, arrivare alla condanna del Dr. Riccio.