La vera storia di don Pierino: “Quattro anni passati in carcere”

C’è stato un altro don Pierino prima di don Pierino. Un prete che ha sempre sfidato le convenzioni, ma che di guai con la giustizia ne ha avuti tanti, ed è pure finito in carcere un paio di volte. A un certo punto è stato anche sospeso «a divinis», salvo poi essere perdonato da Santa Romana Chiesa.
E’ il don Gelmini che non figura nelle biografie ufficiali. I fatti accadono tra il 1969 e il 1977, quando don Pierino era ancora considerato un «fratello di». Una figura minore che viveva di luce riflessa rispetto al più esuberante padre Eligio, confessore di calciatori, amico di Gianni Rivera, frequentatore di feste, fondatore delle comunità antidroga «Mondo X» e del Telefono Amico.
Anni che furono in salita per don Pierino e che non vengono mai citati nelle pubblicazioni di Comunità Incontro. Per forza. Era il 13 novembre 1969 quando i carabinieri lo arrestarono per la prima volta, nella sua villa all’Infernetto, zona Casal Palocco, alla periferia di Roma. E già all’epoca fece scalpore che questo sacerdote avesse una Jaguar in giardino.
Lui, don Pierino, nella sua autobiografia scrive che lì, nella villa dell’Infernetto, dopo un primissimo incontro-choc con un drogato, tale Alfredo, nel 1963, cominciò a interessarsi agli eroinomani. In tanti bussavano alla sua porta. «Ed è là che, ospitando, ancora senza tempi o criteri precisi, ragazzi che si rivolgono a lui, curando la loro assistenza legale e visitandoli in carcere, mette progressivamente a punto uno stile di vita e delle regole che costituiranno l’ossatura della Comunità Incontro».
All’epoca, Gelmini aveva un certo ruolo nella Curia. Segretario di un cardinale, Luis Copello, arcivescovo di Buenos Aires. Ma aveva scoperto la nuova vocazione. «Rinunciai alla carriera per salire su una corriera di balordi», la sua battuta preferita.
I freddi resoconti di giustizia dicono in verità che fu inquisito per bancarotta fraudolenta, emissione di assegni a vuoto, e truffa. Lo accusarono di avere sfruttato l’incarico di segretario del cardinale per organizzare un’ambigua ditta di import-export con l’America Latina. E restò impigliato in una storia poco chiara legata a una cooperativa edilizia collegata con le Acli che dovrebbe costruire palazzine all’Eur. La cooperativa fallì mentre lui rispondeva della cassa. Il giudice fallimentare fu quasi costretto a spiccare un mandato di cattura.
Don Pierino, che amava farsi chiamare «monsignore», e per questo motivo si era beccato anche una diffida della Curia, sparì dalla circolazione. Si saprà poi che era finito nel cattolicissimo Vietnam del Sud dove era entrato in contatto con l’arcivescovo della cittadina di Hué. Ma la storia finì di nuovo male: sua eminenza Dihn-Thuc, e anche la signora Nhu, vedova del Presidente Diem, lo denunciarono per appropriazione indebita. Ci fecero i titoloni sui giornali: «Chi è il monsignore che raggirò la vedova di Presidente vietnamita».
Dovette rientrare in Italia. Però l’aspettavano al varco. Si legge su un ingiallito ritaglio del Messaggero: «Gli danno quattro anni di carcere, nel luglio del ‘71. Li sconta tutti. Come detenuto, non è esattamente un modello e spesso costringe il direttore a isolarlo per evitare “promiscuità” con gli altri reclusi». Cattiverie. […]
nel 1976, quando queste vicende sembravano ormai morte e sepolte, e don Pierino aveva scontato la sua condanna, nonché trascorso un periodo di purgatorio ecclesiale in Maremma, lo arrestarono di nuovo.
Questa volta finì in carcere assieme al fratello, ad Alessandria, per un giro di presunte bustarelle legate all’importazione clandestina di latte e di burro destinati all’Africa. Si vide poi che era un’accusa infondata. Ma nel frattempo, nessuna testata aveva rinunciato a raccontare le spericolate vite parallele dei due Gelmini. Ci fu anche chi esagerò. Sul conto di padre Eligio, si scrisse che non aveva rinunciato al lusso neppure in cella.
Passata quest’ennesima bufera, comunque, don Pierino tornò all’Infernetto. Sulla Stampa la descrivevano così: «Due piani, mattoni rossi, largo muro di cinta con ringhiera di ferro battuto, giardino, piscina e due cani: un pastore maremmano e un lupo. A servirlo sono in tre: un autista, una cuoca di colore e una cameriera».
Tre anni dopo, nel 1979, sbarcava con un pugno di seguaci, e alcuni tossicodipendenti che stravedevano per lui, ad Amelia, nel cuore di un’Umbria che nel frattempo si è spopolata. Adocchiò un rudere in una valletta che lì chiamavano delle Streghe, e lo ottenne dal Comune in concessione quarantennale. Era un casale diroccato. Diventerà il Mulino Silla, casa-madre di un movimento impetuoso di comunità.
Gli riesce insomma quello che non era riuscito al fratello, che aveva anche lui ottenuto in concessione (dal proprietario, il conte Ludovico Gallarati Scotti, nel 1974) un rudere, il castello di Cozzo Lomellina, e l’aveva trasformato, grazie al lavoro duro di tanti volontari e tossicodipendenti, in uno splendido maniero. Ma ormai la parabola di padre Eligio era discendente. Don Pierino, invece, stava diventando don Pierino.

Fonte: Quotidiano.net 

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