Un film sul bimbo ebreo mascotte delle SS

All’età di cinque o sei anni (lui stesso non ricorda con precisione la data di nascita) un ragazzino della Bielorussia con i capelli biondissimi e gli occhi cerulei, che si chiamava Ilya Galperin e come tutti i suoi familiari era ebreo, durante una brutale retata compiuta il 20 ottobre 1941 dalle SS naziste che avevano massacrato tutti i 1600 abitanti di origine ebraica del borgo agricolo di Koidanov (oggi Dzershinsk), riuscì miracolosamente a fuggire, passando attraverso la rete del campo di concentramento, dove era stato portato dopo la fucilazione del padre, e nascondendosi fra gli alberi di una vicina foresta. Nove mesi più tardi il bambino, scoperto da un militare, che per salvargli la vita gli aveva assegnato un’identità falsa ordinandogli di non rivelare mai a nessuno il suo vero nome, fu adottato dalle SS per oltre due anni, che credendolo ariano lo portarono con loro sul fronte russo come mascotte, con tanto di uniforme nazista e di fucile giocattolo.
Solo mezzo secolo dopo il protagonista di questa vicenda, che oggi si chiama Alex Kurzem, ha settant’anni passati e vive a North Altona, in Australia vicino a Melbourne, con la moglie, i figli e i nipoti, ha trovato la forza mentale per ricostruire con fatica il passato. Un passato sul quale la rete televisiva australiana ABC ha realizzato un film-documento e il figlio Mark, che vive in Inghilterra dove è docente di antropologia all’Università di Oxford, ha pubblicato recentemente un libro, The Mascot. «Delle mie origini e della mia storia – racconta Ilya/Alex – io non avevo mai parlato neppure a mia moglie Patricia. Le avevo detto soltanto che i miei, quando ero bambino, erano stati massacrati dalle SS e che venivamo dalla Bielorussia. Poi, con il passare del tempo, mio figlio mi aveva convinto a cercare di sapere tutto quello che non ricordavo, o che avevo rimosso». […]
Adesso però, a settant’anni passati, per questo superstite dell’Olocausto, al trauma infantile dell’avere avuto salva la vita dallo sterminio cancellando la propria origine, fino a diventare strumento inconsapevole di propaganda nazista, si aggiunge anche il trauma della non-accettazione dalla sua stessa gente. La storia di Ilya Galperin/Alex Kurzem, sostiene Phillip Meisel dello Holocaust Centre di Melbourne, avallando il sospetto di collaborazionismo, «non è credibile».

Fonte: Corriere 

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9 commenti

Nerone

accusare di collaborazionismo un bambino di 5 anni? ma gli ha dato di volta il cervello, a certa gente?

lik

@ Nerone

Non credo che mediatizzare in questo modo questa vicenda, scrivendoci libri sopra sia il migliore dei modi per fare accettare la propria storia e penso sia legittimo avere dei dubbi sulla veridicità. Dall’articolo sembra che sia stato accusato di raccontare palle, non di collaborazionismo. Non vedo come accusare qualcuno di raccontare palle sia volerlo accusare di collaborazionismo.

Nerone

@ lik: riporto la frase copiata e incollata dall’articolo stesso

Nerone

@ lik: ……La storia di Ilya Galperin/Alex Kurzem, sostiene Phillip Meisel dello Holocaust Centre di Melbourne, avallando il sospetto di collaborazionismo, «non è credibile»…..
AVALLANDO (confermando, accreditando diz. garzani) IL SOSPETTO DI COLLABORAZIONISMO
tutto ciò è comparso sullo schermo di tutti, non solo sul mio, avallate?

lik

@ Nerone

Non si capisce dall’articolo se e Meisel ad avvallare il sospetto di collaborazionismo o la frase stessa secondo il giornalista, perché nel virgolettato non si parla di collaborazionismo. Comunque non è importante i collaborazionisti sono sempre esistiti, anche durante la tratta degli schiavi, diversi neri africani hanno collaborato attivamente, del resto tra i neri americani (e con americani intendo tutto il continente) e africani non esiste tutto questo grande amore. Il problema lo ripeto è che dare questa storia in pasto ai mass-media in questo modo, scrivendo pure libri, non mi sembra il miglior modo per farsi capire. Forse è in buona fede cerca di togliersi i sensi di colpa, non lo so, ma il metodo utilizzato è comprensibile che non sia ben accettato. Mi sembra lecito poter pensare che sia tutta una palla. Sai di gente che racconta palle e si fa soldi con i libri ce n’è una marea soprattutto nel mondo anglosassone.
Saluti

Carlo

La cosa piu’ strana di quest’articolo e’ che a quanto scritto, questo bambino di 6 anni avrebbe vissuto da solo per 9 mesi, per di piu’ invernali, in una foresta. Francamente mi pare una cosa piuttosto incredibile, come pure il resto della storia. Boh….

lik

@ Nerone

No scuola pubblica, mi dispiace, e quasi tutti i professori erano di sinistra.

@ Carlo

Il problema è che nel mondo anglosassone (e non solo) scrivere libri su storie di questo tipo è diventato un affare, quindi non sai mai quanta verità ci sia dietro, come nelle trasmissioni televisive. Finché si tratta di storie superficiali ok, ma quando si vanno a toccare certi argomenti è normale che la reazione sia quantomeno diffidente.

Nerone

@lik: per gesuitismo intendo, come credo tutti, la diabolica capacità di torturare le parole e i concetti fino a quando questi, stremati, non dicono quello che vuoi sentir dire. il gesuita ha una capacità di capziosità straordianaria e tende a focalizzare i concetti volutamente su un punto erroneo, per esempio risponde alla domanda se ha studiato dai gesuiti aggiungendo che quasi tutti i professori erano di sinistra (ecchisenefrega) oppure stravolge il concetto della follia di accusare di collaborazionismo un bambino di 5 anni, focalizzando la visibilità mediatica, la fame di soldi e di successo ecc. ma rimane il fatto che si accusa di collaborazionismo un bambino di 5 anni, che la sua storia sia vera o meno.

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