La libreria della Società biblica palestinese, nel centro di Gaza, è chiusa: un lucchetto blocca le pesanti serrande azzurre. Attorno, il traffico intasa le strade, le donne si affrettano verso i banchi del mercato. Il sacro mese del digiuno islamico, il Ramadan è ormai finito e la festa della rottura, Aid al Fitr, richiede compere e spese. Il cadavere di Rami Ayyad, il libraio cristiano ucciso a colpi di pistola e accoltellato, è stato ritrovato due domeniche fa a poca distanza dal suo negozio. Il giorno prima era stato sequestrato, dopo aver informato la famiglia di essere seguito da un’automobile sospetta.
I leader del movimento islamista Hamas, che da giugno controlla la Striscia, hanno condannato l’atto e aperto un’inchiesta. Dalla Cisgiordania di Fatah, partito del rais Abu Mazen, quel giorno sono arrivate corone di fiori. I capi della comunità cristiana hanno chiesto giustizia. La famiglia ha puntato il dito contro la mancanza d’autorità e il caos di Gaza; gli amici hanno gridato ai microfoni di qualche giornalista per poi rimpiangere di aver dato il proprio nome alla stampa. Ora, le leadership hanno smesso di parlare del caso e i cristiani di Gaza hanno riabbassato la voce. La comunità ha paura di parlare e preferisce mantenere un timoroso status quo. La suora di un convento in un popolare quartiere della città manda via gli intrusi con educazione: spiacente, veramente spiacente di non poter parlare con i giornalisti. “Siamo contenti qui. Meglio, per la chiesa, non sollevare troppe domande”. A Gaza i cristiani sono tra i 2.500 e i 3.000, una comunità storica che è nella regione dal V secolo dopo Cristo. Rami, 32 anni, nato ortodosso, sposato con una donna cattolica e vicino ai battisti, è sepolto nel piccolo camposanto dietro alla chiesa di san Porfirio, ortodossa. Qui predica padre Artemios, a Gaza da sette anni. E’ nato a Salonicco.
Parla un arabo perfetto, con un dolce accento palestinese. Spiega che il 70 per cento dei cristiani della Striscia se n’è andato e che dopo gli scontri tra Hamas e Fatah l’esodo è aumentato. Il 60 per cento dei giovani va a studiare all’estero. A Dubai sono addirittura duemila i cristiani originari di Gaza. Dice che negli ultimi mesi in molti sono venuti da lui a chiedere certificati di nascita e battesimo in inglese, perché vogliono emigrare. Da quella domenica, lo riempiono di telefonate per sapere a che punto è con le carte. “La situazione è terribile per tutti, cristiani e musulmani. Ora, dopo l’assassinio, i cristiani hanno una ragione in più per andarsene”. Racconta il giorno del funerale: “Avevo paura. Poi, quando ho visto che c’erano più musulmani che cristiani, mi sono detto: ‘Questo crimine non può rompere la fratellanza che c’è'”. Padre Artemios è però spaventato. Gira per strada in tonaca e il giorno dopo l’assassinio, racconta, mentre guidava un’automobile lo ha superato e ha inchiodato di fronte a lui. Ha temuto. Ma, spiega, non vogliamo che si crei il panico.
I suoi fedeli, prima del funerale, gli hanno chiesto di togliere la croce dal carrofunebre. Ha rifiutato. Lo stesso giorno “molti musulmani sono venuti da me: ‘Cosa abbiamo fatto?’, mi chiedevano. ‘Abuna (nostro padre, in arabo), noi non siamo così'”. “Non sappiamo chi abbia ucciso Rami. Per ora, possiamo soltanto speculare”, dice il religioso. Lui stesso ha chiamato Mahmoud Zahar, leader di Hamas. Gli ha chiesto di fare qualcosa con la sua polizia, ma finora non si sa nulla sui colpevoli. Ci sono gruppi islamisti radicali, dice padre Artemios. Soltanto due settimane fa un’anziana è stata attaccata in casa e derubata. L’assalitore, mascherato, l’ha chiamata infedele. Era cristiana. Hanno promesso che avrebbero trovato il colpevole, dice Artemios riferiferendosi a Hamas, ma stiamo ancora aspettando. Il padre di Rami è stato derubato due volte, recentemente.
Nei mesi passati, anche prima dell’ascesa al potere del movimento islamista, sono stati attaccati e minacciati Internet cafè, saloni di bellezza, negozi di video e dvd. La stessa libreria di Rami era stata attaccata, con un piccolo ordigno esplosivo, in aprile. Durante gli scontri tra Hamas e Fatah la scuola delle Sorelle del Rosario è stata assalita, le immagini sacre distrutte. Il gruppo che rivendica molte delle azioni, ma che non ha rivendicato l’uccisione del libraio, si firma “Le spade dell’islam”. Altre sigle sconosciute, per molti legate ad al Qaida, sono apparse nella Striscia con l’aumentare del caos e dell’anarchia causata dalle lotte fra fazioni. Gruppi simili hanno intimato alle donne, dopo il coup di Hamas, di indossare il velo e hanno minacciato attacchi a chiese e associazioni cristiane nel settembre del 2006, in seguito al discorso di Papa Benedetto XVI a Ratisbona. Allora, la chiesa di padre Artemios fu colpita da una piccola bomba incendiaria. Per il religioso greco, uno dei maggiori problemi sono le prediche nelle moschee: “Chiamano i cristiani miscredenti, kuffar (infedeli), crociati. I leader di Hamas, le grandi famiglie di Gaza, conoscono i cristiani della città. Ma le nuove generazioni? Che futuro avremo? Devono darci una risposta: possono proteggerci o no?”. Perfino la Bibbia dice che Dio non guarderà a Gaza, sussurra con un piccolo sorriso il prete mentre mostra gli affreschi della sua chiesa appena rinnovati da pittori greci. “Io manderò dentro alle mura di Gaza un fuoco, che ne divorerà i palazzi” (Amos 1:7). Soltanto alcuni dei leader della comunità cristiana di Gaza parlano della situazione, con grande diplomazia e mai sbilanciandosi contro i poteri forti. I fedeli, le famiglie, i cittadini hanno paura di dare il proprio nome. Almeno sette persone contattate dal Foglio hanno gentilmente negato le proprie testimonianze. “E’ un tema troppo sensibile, non è bene parlare di quello che abbiamo dentro”, spiega un uomo sulla cinquantina, un cristiano ortodosso di Gaza che non vuole dare nomi. “Ho una moglie e figli e … ma non lo scrive il nome vero? Certo che ho paura, hanno iniziato a insultarci per strada, chiamandoci miscredenti, è un fenomeno nuovo. E’ iniziato tutto dopo il collasso dell’Autorità. Non dovremmo emigrare perché questo è il nostro paese. Eppure, io non lo faccio soltanto perché dovrei iniziare tutto da zero e qui ho una casa, una macchina. Ma se potessi avere altrove quello che ho qui andrei via di corsa”. Miriam, non è il suo vero nome, è spaventata per suo figlio adolescente. Racconta anche che è la prima volta che si fa accompagnare al lavoro dal marito. “Per ora non ha ricevuto nessuna minaccia, nessun insulto”. I suoi vicini sono sempre stati musulmani, i rapporti sono ottimi. I compagni di scuola del figlio sono di religione islamica e non ha mai avuto un problema. “Ma ora siamo più spaventati. Voglio che mio figlio vada a studiare fuori, per avere più possibilità di trovare un lavoro”. Questo, dice, vale anche per i musulmani: la situazione generale a Gaza è terribile. “A chi dobbiamo rivolgerci? – si chiede la donna – Non c’è autorità. Ad Hamas? Oppure sono loro dietro il problema? Non so”. La scuola cattolica della Sacra famiglia è frequentata dai figli dell’élite di Gaza, musulmani e cristiani. I ragazzini, maschi e femmine, indossano un’uniforme grigia, pantaloni e gilet. Anche il figlio del leader di Hamas Mahmoud Zahar è iscritto all’istituto. Sul soffitto, ci sono fiori di carta colorati. Il crocefisso è in ogni aula, mentre nel corridoio ci sono le fotografie di Abu Mazen e Yasser Arafat. Il preside, padre Maneul Musallam, è noto per la sua diplomazia. Abbiamo vissuto secoli con i musulmani, sofferto con i musulmani ma non per mano dei musulmani, dice. “Siamo palestinesi, un solo popolo. A Gaza è però entrata da fuori una filosofia di violenza e di rifiuto dell’ordine, che ha fatto nascere un atto terribile. Chi ha ucciso il cristiano ha ucciso anche musulmani. La maggioranza dei musulmani è diventata infedele per altri musulmani. Ora, a Gaza, la politica e la religione si sono scontrate e noi cristiani siamo in mezzo, tra Fatah e Hamas. Se non proteggono neppure i musulmani, come possono proteggere noi?”. Ihab al Ghussein è il giovane portavoce del ministero dell’Interno di Hamas, un ingegnere dalla barba rada. Chiede di lasciargli cinque minuti per pregare. Esce. Torna dopo poco. “Hamas ha un buon rapporto con tutti, cristiani compresi, non facciamo distinzioni. I casi precedenti legati ai cristiani erano semplici furti. Non crimini religiosi. Ci sono alcuni nostri membri, ma veramente pochi, che possono pensare e compiere atti sbagliati. Se sono dietro a questo crimine, non avremo pietà come abbiamo fatto nel caso di Alan Johnston”, il reporter della Bbc rapito a marzo. Hamas, rassicura, non vuole creare uno stato islamico a Gaza. La prova, dice, è che durante le elezioni un nostro candidato, Husam Tawil, era cristiano. Nel cortile della casa del morto, i parenti di Rami Ayyad ricevono le condoglianze, seduti su sedie in plastica verdi. Di sopra, in salotto, sono riunite le donne, vestite di nero. Davanti all’ascensore, decine di corone di fiori: da parte del rais Abu Mazen, del capo del suo staff, Rafiq Husseini, del mistero della Cultura, forse di Gaza forse di Ramallah. Ai muri, la foto del defunto, un ragazzo sbarbato con gli occhiali da secchione. Suo fratello, Ibrahim, la faccia rossa dal pianto, dice che “prima di avere paura dobbiamo sapere chi è stato. Siamo andati dalle Forze esecutive di Hamas, hanno aperto un’inchiesta, hanno detto che per loro è importante sapere. Certo, si tratta di un crimine religioso. Se sarà confermato, è grave. Ma l’ascesa al potere di Hamas non c’entra. Che tipo di interesse possono avere in questo? Ci sono altre fazioni radicali islamiche. E abbiamo paura di loro. Per prima cosa devo sapere chi è il mio nemico. Dopo, io e la mia famiglia non rimarremo qui un giorno di più. Siamo 2.000 cristiani, cosa abbiamo qui a Gaza? Scordate le nostre radici, il nostro paese, questo paese non è più per noi. La distinzione tra cristiani e musulmani è un fenomeno troppo in crescita”. Ibrahim accusa i leader cristiani di non avere preso una posizione più dura: avrebbe voluto vedere chiuse scuole e chiese, per lanciare un messaggio: c’è qualcosa che non va. La moglie, al piano di sopra, racconta che Rami non avrebbe mai voluto lasciare Gaza. Per lei ora è diverso. Ha due figli, un terzo in arrivo e se trova l’occasione proverà a partire. Anche la madre del giovane, Anisa, vuole andarsene “il prima possibile. C’è stato un cambiamento dopo il coup di Hamas e la grande prova è la morte di mio figlio. Chi ci proteggerà? E soprattutto: da chi?”.Ramallah. “Con grande dispiacere vi informiamo della nostra forzata decisione di chiudere la tv della Natività, al Mahed, a partire dal primo novembre 2007 nonostante il suo inestimabile servizio, durato undici anni, nei confronti della chiesa e dell’esistenza della comunità cristiana in Terra Santa”. Così, Samir Qumsieh, direttore del canale tv cristiano della Cisgiordania, al Mahed, dà notizia dell’imminente chiusura. La televisione ha sede a Betlemme. Tutti, in città, sanno indicare dove sono i suoi uffici. La vecchia casa in cui si trova il piccolo studio, quasi fai da te, in cui lavorano giovani cristiani e musulmani, è in cima a una collina. La rete è aperta dal 1996; trasmette in Cisgiordania, Giordania, Israele e ha un milione di telespettatori. In Cisgiordania i cristiani sono 35 mila. Al Mahed è la prima emittente a mandare in onda messe domenicali di ogni confessione cristiana, e il venerdì anche la preghiera islamica.
Ci sono programmi di approfondimento sulla religione cristiana, notiziari e intrattenimento. Chiude perché è in rosso di 800 mila dollari. Seduto alla sua scrivania Qumsieh sfoglia un rapporto che gli è appena stato inviato da Gaza, da alcuni cristiani di cui non vuole fare il nome: tratta i recenti attacchi alla piccola comunità della Striscia.
Due settimane fa un cristiano, Rami Ayyad, impiegato in una libreria battista, è stato ucciso dopo un breve sequestro. I colpevoli non sono ancora stati trovati. Ai muri sono appese fotografie in cui Qumsieh è al fianco di Papa Giovanni Paolo II, di Papa Benedetto XVI, con il ministro degli Esteri spagnolo Miguel Angel Moratinos e il premier turco Recep Tayyip Erdogan. Ci sono immagini sacre, ma anche la cartina della Palestina con i colori della bandiera, bianco nero rosso e verde. “Quando Hamas è salita al potere alcuni membri vennero da me, per prendere contatto con i cristiani. Mi hanno detto: cristiani e musulmani sono uguali. Va bene, ho risposto, ditelo in onda sulla mia televisione per rassicurare la comunità che non saranno prese misure contro di essa. Lo hanno fatto, ho ancora la registrazione, e adesso? Non credo loro, quello che succede a Gaza è terribile. Non hanno condannato l’assassinio di Rami Ayyad in pubblico”. Lui lo ha fatto in tv. Mentre parla, su uno schermo, sintonizzato su al Mahed, appare un testo in arabo letto da una voce femminile: sono le sue condoglianze alla famiglia di Ayyad, “vittima di un atto di razzismo e odio, chiedo all’Autorità di arrestare i colpevoli e punirli severamente; saranno comunque puniti da Dio”. Al Foglio dice di considerare “Hamas responsabile di quello che succede a Gaza perché dopo il coup di giugno sono loro ad avere il controllo della Striscia”. Una targa di riconoscimento per l’attività della televisione è appoggiata per terra, a differenza di altre, in bella mostra sul muro. E’ da parte di Hamas. “Non merita di essere appesa. Ho deciso di restituirla perché il gruppo non ha mantenuto le promesse fatte” in onda sulla tv. “Voglio farlo in una conferenza stampa davanti ai mass media”, dice Qumsieh. La sede della televisione è stata presa a sassate più volte negli ultimi anni; la sua automobile, parcheggiata davanti alla sua abitazione, nel 2006 è stata colpita da due molotov. Qumsieh ha scritto nei decenni lettere di rimostranza sulla condizione dei cristiani nei Territori ai leader dell’Autorità nazionale, sia di Hamas sia di Fatah, senza distinzione. Accusa però anche gli stessi cristiani di non voler affrontare la situazione. “I leader della chiesa non vogliono parlare”. Il budget annuale della televisione è di soli 140 mila dollari. Com’è possibile che nessuno nel mondo cristiano voglia pagare una così piccola somma per tenere aperta l’emittente e rendere un servizio all’esistenza stessa della comunità, si chiede Qumsieh? Prevede che fra 15 anni non ci sia più nemmeno un cristiano in Terra Santa: stanno tutti emigrando. La sua famiglia è un chiaro esempio. Di sei fratelli lui è l’unico a essere rimasto in patria e dopo la chiusura dell’emittente conta di andare all’estero.
Reportage di Rolla Scolari apparso su Il Foglio del 20 ottobre 07 e pervenuto a ultimissime
Immagino che accada per ragioni tecniche, ma non è possibile commentare l’ultimissima a proposito di Watson.
Il foglio dovrebbe rinunciare a parlare di Palestina dopo che ha propagandato in lungo e in largo le elezioni come totale panacea e viatico di democrazia e libertà (fedele ai ferrei diktat di washington e della lobby filoisraeliana ivi potentissima)…
…poi le elezioni sono venute…e le ha vinte Hamas,
un altro svarione del ciccione prezzolato dalla Cia,
lol!
Kull.
Se non ci fossero le religioni sarebbero solo tutti palestinesi.
Sul mio computer continua a non essere accessibile la sezione “commenti” della pagina http://www.uaar.it/news/2007/10/24/dopo-frasi-razziste-watson-chiede-scusa/ . Eppure, il contatore sull’indice delle ultimissime evidenzia la presenza di quattro commenti, evidentemente aggiunti da qualcun altro. La sezione commenti di ogni altra pagina viene visualizzata regolarmente e completa di tutte le sue funzionalità. Com’è possibile un problema tecnico di questo genere? Misteri della tecnologia!