In Europa spetta all’Emea, l’Agenzia europea dei medicinali, decidere se un farmaco biotech (o ottenuto con altre tecnologie di avanguardia) può essere messo in commercio o meno. Una valutazione che richiede ai nuovi prodotti di dimostrare la loro equivalenza a quelli già presenti sul mercato, non la loro superiorità. Si tratta di un sistema che favorisce le case farmaceutiche, ma a scapito della salute pubblica e della ricerca, per questo la regolamentazione dell’Unione Europea per l’approvazione dei medicinali dovrebbe cambiare. Un tema, questo, che l’Istituto di ricerca indipendente Mario Negri segue da molto tempo, e che il British Medical Journal ha recentemente riportato all’attenzione pubblica con un articolo di Silvio Garattini e Vittorio Bertele, rispettivamente direttore e capo laboratorio delle politiche regolatorie del farmaco dell’istituto milanese. Come gli autori sostengono ormai da anni, ci sono diversi “bias” nell’iter che porta un medicinale dal laboratorio allo scaffale delle farmacie: bachi del sistema che ostacolano l’innovazione e la trasparenza nelle procedure.Professor Garattini, il vostro articolo mette l’accento sulle relazioni tra l’industria e la ricerca. In particolare, voi sostenete che le procedure di approvazione dei farmaci in Europa devono cambiare. Quali sono le falle del sistema attuale?
L’Emea, l’organismo responsabile per l’approvazione dei farmaci e che ne segue il ciclo di vita nei 27 stati membri, risponde gerarchicamente alla Direzione generale dell’industria. Il che è un’anomalia, perché dovrebbe far capo piuttosto a un organo di amministrazione sanitaria. Il fatto che a livello europeo il referente sia il settore dell’impresa ci fa capire che il farmaco è concepito come un bene di consumo e non come uno strumento di salute. A questa impostazione seguono altre anomalie, per esempio il problema della confidenzialità per le informazioni cliniche e tossicologiche. Diversamente da come avviene negli Stati Uniti, dove l’organo responsabile è la Food and Drug Administartion infatti, i dati che stanno alla base delle decisioni di autorizzazione o di diniego di un farmaco sono spesso tenuti segreti.
Un esempio di informazioni che non vengono rese note?
Frequentemente il farmaco viene approvato a maggioranza. Tanto per cominciare dovrebbero essere esplicitate le obiezioni di chi vota contro e l’entità della maggioranza. È disponibile l’European Public Assessment Report (Epar), ma è più che altro un riassunto. Poi ci sono i conflitti di interesse, l’altro bias: la documentazione su cui si basa la commissione di approvazione è tutta di origine industriale, è fornita cioè da chi ha diretto interesse a ottenere l’autorizzazione. Chi conduce la ricerca può essere portato, anche inconsciamente, a valorizzare gli aspetti positivi del farmaco e a sottacere o sottostimare gli effetti sfavorevoli. Una proposta che facciamo da tempo è che nel dossier presentato per richiedere l’approvazione del medicinale ci sia anche una ricerca indipendente, portata avanti da organismi che non siano di natura industriale e gestita almeno in parte con fondi pubblici.
E gli studi indipendenti esistenti?
Oltre a essere la minoranza, sono eseguiti tutti a posteriori e, soprattutto, non possono essere inclusi nel rapporto presentato alla commissione, perché la regolamentazione prevede che la responsabilità dell’approvazione ricada sull’industria.
E poi c’è il terzo baco del sistema, che riguarda i farmaci nuovi ma poco innovativi…
Tutti siamo portati a credere che ogni nuovo medicinale per una certa malattia sia migliore, o per lo meno più economico, di quello già in circolazione, caratteristiche che però non sono affatto richieste da chi lo deve approvare e brevettare. Il farmaco in Europa viene testato attraverso le caratteristiche di qualità, efficacia e sicurezza ma, dal momento che i confronti con altri medicinali già in commercio non si fanno, è difficile stabilire qual è il valore aggiunto di un prodotto appena uscito. Questo è un punto su cui bisogna continuare a battere in modo che il Parlamento Europeo si renda conto che questa situazione è insostenibile e inaccettabile.
Come è possibile che non si faccia alcun confronto tra i prodotti già esistenti e quelli in via di approvazione?
Si fanno ma non come si dovrebbe. Chi conduce gli studi spesso sceglie un farmaco di riferimento che non è il migliore in circolazione, o paragona dosaggi non omogenei. Esistono dei protocolli, ma non è facile seguirli e i risultati degli studi comparativi non sono ottenuti in accordo con i parametri predisposti. Le autorità regolatorie dovrebbero garantire che i protocolli siano rispettati, ma per fare questo è necessario poter contare su persone molto critiche e molto preparate.
Nella vostra pubblicazione avete avanzato delle proposte, oltre quella di includere le ricerche indipendenti nella fase di sperimentazione…
Maggiore severità nell’iter di approvazione, che dovrebbe richiedere un reale valore aggiunto del prodotto rispetto a quelli esistenti, e un allungamento dei tempi di immissione sul mercato. D’altra parte si potrebbe essere più flessibili con le industrie per incoraggiare la ricerca delle case farmaceutiche. Un’idea è quella di prolungare le scadenze dei brevetti, in cambio però di una reale innovazione e di una maggiore qualità.
Quello che dice Garattini è vero. Peccato che in Italia l’ AIFA (agenzia per il farmaco, che decide quali e in quali casi sono i farmaci da “passare” ai cittadini) sia sempre più indipendente dall’ Industria (positivo) ma sempre più dipendente dal budget del Ministero (negativo, perché tende a non passare nessun farmaco nuovo e ad eliminare tutti quelli esistenti). Come sanitario costretto, per il fatto di essere iscritto all’ Albo, a spendere almeno 500 Euro l’ anno per aggiornamenti obbligatori, vedo sempre meno posizioni scientifiche in giro e sempre più ricercatori schierati, o col Ministero o con l’ Industria. E chi ci rimette, quando gli scienziati si schierano politicamente, è la Scienza.
Scoprire/inventare un nuovo farmaco efficace costa delle cifre iperboliche!
Chi ce le mette? l’industria che però non è lì per fare beneficienza ma per far soldi e quindi deve rientrare dei costi e con gli interessi. E ringraziamo che ci sia questa entità che, anzichè guadagnare costruendo automobili o giocattoli e jeans, guadagna costruendo un qualcosa che, come effetto collaterale, ci permette di guarire dalle malattie.
Come tutte le altre industrie fa delle politiche di mercato finalizzate al proprio successo economico! Vorremmo da questa industria un’etica superiore a quella che vogliamo dai produttori di coca cola?
Se il prodotto che producono le industrie farmaceutiche richiede un’etica “sociale” allora lo produca lo stato incrementando la ricerca e spendendoci tutto quello che ci va speso! Ma lo stato è in grado, non solo economicamente, di farlo?
Una delle storie più triste che abbia mai sentito è quella del premio Nobel italiano (cittadino italiano) per la Medicina Daniele Bovet. Qualcuno l’ha sentito nominare? i suoi studi sui sulfamidici, antistaminici e curarici gli hanno valso un Nobel nel 1957. Ebbene l’Università italiana lo boicottò al punto che solo nel 1964 riuscì ad avere una cattedra e sapete dove, a Sassari. L’unico Nobel italiano per la Medicina fino ad allora ….. a Sassari. Non commento! Se volle tornare a Roma dovette andare al CNR e solo quando era ormai ben vecchio gli dettero un posto all’Università di Roma!
Tutto è migliorabile ed è giusto lottare per migliorare …. ma ricordiamoci che la nostra società è fatta dagli uomini che hanno sempre, neanche tanto in fondo, quei bei bassi istinti animali ….
Io Daniele Bovet sapevo chi era, ma d’altra parte anche Rubbia perse il concorso per una
cattedra di fisica all’universita’ di, pensate un po’, di Lecce.
Appunto!
Il Pubblico non premia il merito e purtroppo dobbiamo essere contenti che il privato faccia lavorare i bravi che ci procureranno le medicine e le tecnologie per la sopravvivenza futura!!
Ripeto, tutto è migliorabile ed è giusto tenere gli interessi della gente come priorità rispetto a quelli dell’industria ma non demonizziamola!!