Una scuola laica contro i fanatismi

C’è qualcosa di poco sportivo nel sostenere le proprie opinioni richiamandosi al volere di Dio o anche di una secolare ideologia divinizzata. E’ già abbastanza fastidioso l’abuso dell’ipse dixit, il richiamo al pensiero e alle azioni di qualche autorità terrena, per dare forza alle nostre fragili ragioni, figuriamoci quando chiudiamo la bocca ai nostri interlocutori autonominandoci interpreti e portavoce di un onnipotente, sia esso in questa terra o nell’alto dei cieli. Come si usa dire, in questi casi non c’è gara: chi sono io per contestare il volere della divinità, per discutere l’indiscutibile? Non mi resta che la sottomissione oppure, a mio rischio e pericolo, la ribellione.Per di più, è del tutto evidente che da tempo immemorabile i pareri su queste massime autorità sono diversi e discordi tanto che non di rado le dispute filosofiche e teologiche si trasformano in conflitti di potere e tendono irresistibilmente a decidersi sui campi di battaglia. Gli eserciti si confrontano certi che Iddio o qualche ideologia divinizzata siano dalla loro parte ed è stupefacente come ciascuna delle parti trovi studiosi, religiosi e sacri testi pronti a sostenere le buone ragioni per sopraffare e sterminare chi non ha fede o ne ha una diversa.

Di fronte alla recrudescenza di guerre di potere mascherate come confronto tra Bene e Male, come scontri di civiltà o tra seguaci del vero Dio ed empi e idolatri, la prima cosa che mi viene in mente è: difendiamo i bambini e le bambine.
La scuola dovrebbe contribuire a conoscere e a conoscersi. Facilitando la conoscenza dell’altro/a, si riducono i rischi di incomprensioni, diffidenze e pregiudizi. Più ci conosciamo, più saremo propensi a riconoscerci come esseri umani simili nelle nostre miserie e nelle nostre grandezze. E riusciremo ad accettare – finalmente! – che bambini e bambine, ragazzi e ragazze vengano allevati/e anche al di fuori di ogni credo, confessione o appartenenza religiosa ma nel rispetto della fede altrui e nella convinzione che una vita ben spesa deve interrogarsi sul suo stesso mistero.

Tutti i bambini e le bambine vanno rispettati/e nelle loro diversità, anche in quelle che attengono alle tradizioni religiose delle comunità in cui sono nati/e e sono stati/e allevati/e. Su questo punto, quali che siano le nostre opinioni, dovremmo sentirci vincolati dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia diventata legge nel nostro Paese nel 1991, che ci obbliga a rispettare il diritto dei bambini e dei ragazzi non solo alla libertà di religione ma anche a quella di coscienza e di pensiero (art. 14).
Rispetto per tutti i credenti, dunque, ma anche per chi non crede. Io ritengo che si tratti di un principio di grande civiltà che va applicato anche se in questo o quel Paese d’origine dei bambini non c’è altrettanta tolleranza nei confronti di chi non appartiene alla confessione religiosa dominante. Mi auguro che nelle successive edizioni della Convenzione si tuteli con chiarezza anche il diritto a non credere, ma una scuola laica non dovrebbe attendere gli aggiornamenti della Convenzione.

Io non ho titoli per dare giudizi su chi crede o non crede. Li ho invece, come tutti noi, per affermare il mio diritto a credere o a non credere senza che questo comporti rischi personali, esclusioni, emarginazioni e discriminazioni di sorta. E i/le nostri/e bambini/e hanno diritto a crescere e formarsi in piena libertà le loro opinioni senza essere forzati/e a credere o a non credere. Dovrebbe essere loro consentito di sperimentare questa intima meditazione sui temi più alti dell’esistenza, accettando i loro dubbi, i loro entusiasmi, i loro scoramenti e , una volta cresciuti/e, rispettando le loro scelte.

Anni fa ho parlato su questo tema in occasione di un incontro per “la cattedra dei non credenti” promossa dall’allora Arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini. Ho sostenuto che quando bambini e bambine incontrano i primi grandi dolori, ma anche quando provano gioia o restano stupefatti di fronte allo spettacolo della natura, dimostrano che l’essere umano è ‘naturalmente religioso’, non nel senso di una fede in una divinità superiore ma in quello ricavato da una probabile etimologia del termine ‘religione’ che lo vuole derivato dal latino religare.

Questa fondamentale unità del tutto, questo legame tra gli eventi e le loro cause, naturali e soprannaturali, visibili e invisibili, è caratteristico della visione del mondo infantile. Anche gli adulti sperimentano questa la loro originaria sensibilità religiosa quando ricordano, rievocano, immaginano, fantasticano, sognano, gettano impensabili ponti tra presente, passato e futuro annullando i limiti di spazio e di tempo che vincolano l’esistenza dell’essere umano. Anche se non sempre ce ne rendiamo conto, molto spesso noi cerchiamo legami tra eventi, esperienze, emozioni e sentimenti come se credessimo alla fondamentale unità del nostro mondo.
E’ stato però detto: il/la bambino/a si affida, il credente vuole. Il problema è appunto il passaggio dall’affidarsi al credere.
Non si può negare la capitale importanza di ciò che è avvenuto quando, da piccoli/e, noi ci affidavamo agli adulti, ci fidavamo di loro. Ciò che abbiamo ricevuto e ciò che ci è stato negato, ciò che ci è stato insegnato a credere e ciò da cui ci è stato detto di diffidare, rimane iscritto durevolmente dentro di noi e condiziona il nostro atteggiamento in tutte quelle situazioni nelle quali ci si chiederà ancora una volta di affidarci, dunque anche nelle questioni di fede. Se, come è stato detto, il credente non subisce ma davvero vuole, ciò significa che ha interiorizzato una fiducia di base nel mantenimento delle promesse. Se non siamo stati aiutati/e e protetti/e o se siamo stati/e ingannati/e durante il periodo nel quale ci affidavamo agli adulti, c’è il rischio di non credere più a nulla, di fingere di credere per opportunismo oppure di rifugiarsi in una granitica fede per nascondere le nostre insicurezze sotto la corazza del pregiudizio, dell’integralismo e del fanatismo, tutti mali, questi ultimi, tra i più diffusi e perniciosi del nostro tempo.
Sempre in occasione dell’iniziativa sopra citata, ho ascoltato il Cardinale Martini affermare che un vero credente non può che essere tollerante perché conosce la parte di se stesso che resiste, la sua parte incredula.
Il sentimento religioso, nel senso sopra indicato, sorge spontaneamente in un bambino/a che è nato/a per resistere alla morte, che è nato/a anche per sapere, interrogarsi e interrogare. Ma il sentimento religioso non va confuso con il credere. Per me credere, o non credere, presuppone una coscienza e un volere, mentre il bambino prevalentemente si affida.
Qui emerge la nostra responsabilità di educatori: lasciare che il/la bambino/a non sia forzatoa a credere o a non credere, ma che gli/le sia consentito di sperimentare e coltivare senza costrizioni il suo naturale sentimento religioso, accettando gli esiti di questa ricerca anche se non corrispondenti alle nostre attese. Occorre soprattutto incoraggiarlo/a a ritenere il tema degno comunque della massima attenzione, anche quando si sentirà dire che si tratta di argomenti futili, da creduloni, tipici di un’età in cui si crede ancora alle favole o, soprattutto, quando vedrà, o subirà, gli effetti devastanti del fanatismo religioso.
Penso che le cose stiano proprio così: credere o non credere è cosa da grandi, mentre il sentimento religioso è cosa da bambini/a, nel senso più alto dell’espressione, e come tale va rispettato e se possibile recuperato grazie a un atteggiamento comprensivo e tollerante degli adulti.

Il percorso verso obiettivi alti come sono quelli che attengono a nostre trasformazioni interiori è duro, difficile, lungo, penoso, talvolta al limite dell’impossibile. Per molti di noi il tema della fede è qualcosa da rifiutare o accettare in blocco, e questo talvolta comporta qualche rischio in un clima di intolleranza che oggi non è minore che nel passato. Di solito però noi adottiamo il credo religioso della nostra cultura di appartenenza per così dire ope legis. Per caso sono nato in ambiente cattolico, ma sarei potuto nascere da genitori musulmani, ebrei o induisti o non credenti.
Adottare in questo modo una confessione religiosa è tutto meno che un’ “esperienza religiosa”, un’esperienza che invece tutti dovremmo fare per poterci dire un giorno credenti o non credenti.
Non credere, contrariamente a quanto molti pensano in buona o cattiva fede, non significa vivere una vita senza etica. Simon Blackburn è un importante filosofo inglese. Nel suo libro Essere buoni (Milano, Pratiche, 2003), Blackburn risponde a “sette minacce per l’etica”; a idee, teorie o argomentazioni che tendono a rendere un ambiente morale propenso al cinismo e alla sfiducia.

La prima riguarda la “morte di Dio” e la famosa domanda di Dostoevskij “se Dio è morto tutto è permesso?” Una domanda mal posta, perché “la religione non è il fondamento dell’etica”. Il primo a dimostrarlo è stato Platone nell’Eutifrone, sostenendo che noi amiamo gli dèi perché essi mostrano di essere virtuosi, buoni o santi, e non li consideriamo buoni perché essi sono dèi. L’etica viene prima della religione, la quale comunque ha un compito decisivo: quello di dare una veste e un’autorità mitiche alla morale. L’importante è che nel far questo non ne mini le fondamenta, come quando diventa una vera forma di dominio delle anime.
Forse, più che di una fede, rassicurante quanto si vuole ma troppo spesso usata per distinguerci dagli infedeli e per combatterli se non li può convertire, noi abbiamo bisogno di ritrovare il senso del sacro e del rispetto.

L’umana ricerca della fonte della giovinezza può forse aver termine se ci rendiamo conto che quella fonte si trova dentro di noi e non zampilla soltanto quando abbiamo pochi anni di vita ma è in grado di darci acque chiare e abbondanti per tutta la vita. Perché questo avvenga occorre imparare a resistere alla overdose di ostilità alla quale siamo esposti ogni giorno, accompagnata da un profluvio di messaggi che si rivolgono a noi esclusivamente come potenziali consumatori, clienti, elettori o fedeli e non come esseri umani che intendono cercare e, se possibile, trovare un perché della loro esistenza.
Il rispetto, il fatto di essere accettati per come siamo, dipende anche dalla nostra capacità di rispettarci. Dare un senso alla nostra vita, aiutare gli altri, coltivare l’indipendenza di pensiero, dare un forte contenuto etico alla nostra esistenza, non accettare l’inaccettabile e poi, perché no?, coltivare la nostra salute fisica, sono le condizioni perché dalla nostra fonte continui a uscire acqua limpida e salutare finché ci è dato restare su questa terra.
Non ho idee precise su quale sia il senso della vita ma so che sento che dobbiamo ricercare quel senso. E’ probabile che non lo troveremo ma varrà la pena di vivere finché non saremo stanchi di cercarlo. E forse è proprio questa ricerca il senso più profondo della nostra esistenza, quello che ci spinge a cercare e a dare sempre nuovi, parziali e provvisori sensi alla vita di tutti i giorni.
Come Don Chisciotte alla ricerca della sua Dulcinea, la meta forse non sarà raggiunta ma almeno il nostro modo di pensare e di comportarci nel quotidiano dovrebbe essere all’altezza di quella meta.
E credo anche che, se mai lo troverò, quel senso mi comparirà d’improvviso, forse per un breve attimo, per poi scomparire, volatile come lo sono i sogni.

Aveva forse ragione Marco Aurelio:
“Viviamo come se gli dei ci fossero. Poi si vedrà.”

Fonte: Legge Popolare

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9 commenti

Aldo Grano

Non ho capito chi ha scritto questo articolo, ma è uno con le sfere. Vorrei dirgli che, comunque, i veri credenti e i veri atei sono una minoranza, così come i veri dubbiosi. La maggior parte del popolo segue l’ esempio dei potenti (in Italia è molto diseducativo, scusate se oso esprimere un giudizio) e, senza rendersene conto, si lascia manipolare desideri e stili di vita dalla pubblicità e dalle esigenze della produttività sul lavoro, che occupa, se consideriamo i tempi di trasferimento, mediamente la metà della vita delle persone. In una situazione del genere la preoccupazione che sia la fede a impedire alle persone, bambini in primis, di vivere e scoprire la vita in libertà è patetica. Una scuola, sia essa laica o religiosa, influenza gli alunni in minima parte. Televisione e pubblicità sono molto più forti. E gli slogan pubblicitari sono molto più incisivi sia delle preghiere insegnate ai bambini sia dell’ educazione civica laica.

Bruna Tadolini

Fulvio Scaparro (se è lui che ha scritto tutto questo) ha ben capito la complessità genetico/culturale dell’istinto al soprannaturale che abbiamo e di come esso si trasformi culturalmente!
E’ un percorso che i bambini devono fare e tocca a noi indirizzarli …… indirizzarli, non inibirli

paolo di palma

La propensione al sopranaturale, in un ambiente culturale come il nostro, credo sia difficile sia da dimostrare che da escludere. L’inquinamento mediatico, di costume, di consuetudine familiare, nel quale sono immersi i nostri figli, non credo riesca a garantire quella libertà di evoluzione interiore che viene ipotizzata nell’articolo. Il contenuto è pienamente condivisibile, non potrebbe essere altrimenti visto che prevede per tutti una totale libertà intellettuale, ed è giusto puntare al massimo almeno teoricamente per ottenere in pratica qualcosa che a ciò tenda. Aldo Grano, la fede in tutti i paesi a religione in particolare monoteita è almeno altrettanto ingerente degli altri fenomeni che hai nominato. Trovo più penoso foderarsi gli occhi di proscitto facendo finta di non sapere che in Italia, per esempio, i personaggi di gran lunga più presenti nei telegiornali sono il papa e i vari cardinali.

Mario D'Ambrosio

Naturalmente c’è una estrema differenza tra il coltivare intimamente un sentimento religioso, alla ricerca di un personale equilibrio, costruendo un percorso di vita, e quella che è la propensione al pensiero magico dei bambini. Proprio perchè per molti il credere può diventare una risposta tra le altre, nella ricerca del senso della propria vita, se non addirittura un modo di dirigere il personale interesse per le le altrui esistenze, la tutela dei bambini è ancor più necessaria. Oltre la “tolleranza” dichiarata dal Cardinal Martini riportata nell’articolo, auspico accettazione e rispetto degli altri punti di vista, nel rispetto delle leggi e della convivenza civile. Finchè nella scuola di stato persiste l’ora di religione non possiamo parlare né di tolleranza né di accettazione dell’altro, né di rispetto dell’altro, bensì di plagio delle nuove generazioni che li espone drammaticamente alla “pubblicità ingannevole” di “agenti di commercio” che propongono “immortalità” apparentemente a poco prezzo (basterebbe credere). Perchè non volare alto?

J.C. Denton

Il discorso è molto bello e condivisibile, rimane però un discorso per pochi eletti. Sono pochi i credenti che hanno consapevolezza della loro fede e del ruolo che essa ha nelle loro vite, e sono pochi i non credenti come noi che si degnino di sollevare questo problema. Per la stragrande maggioranza della popolazione la fede rimane una pastoia per il cervello, e le istituzioni religiose socialmente si comportano come la criminalità organizzata. Non sono certo i contenuti della fede a disturbare i non credenti, sono gli effetti a lungo termine che questi hanno sulla popolazione incolta che creano problemi. Purtroppo il discorso “ognuno ha i suoi gusti” non vale in questo caso, almeno finché la religione sarà un fenomeno di massa piuttosto che un libero atteggiamento mentale di pochi.

BX

Io credo che, proprio di fronte alla impossibilità di ‘sapere’ se gli dei esistono o non esistono (o – per citare Kant – visto che non si potrà mai ‘dimostrare’ nè che dio esiste nè che non esiste), non abbia alcun senso vivere ‘come se esistesse’ perchè in realtà questo obbliga a vivere da credente. Questo dettatomi dalla citazione di Marco Aurelio posta alla fine del lungo articolo, che contiene tanti altri punti meritevoli di commento.
In questa sede mi interessa solo – perchè credo perfettamente in tono con tutto l’articolo – richiamare la lunga discussione suscitata dalla notizia della apertura in California di una (ma già qui sono nate le divergenze) ‘scuola atea’ o dove ‘si insegna l’ateismo’ o una cosa del genere. A quella rimando.

lik

Secondo me è un discorso astratto, ma nel concreto cosa vuol dire ad esempio:
“Tutti i bambini e le bambine vanno rispettati/e nelle loro diversità, anche in quelle che attengono alle tradizioni religiose delle comunità in cui sono nati/e e sono stati/e allevati/e.”
Questo discorso lo si sente ormai da anni, Fulvio Scaparro farebbe meglio a scendere più nel concreto e pronunciarsi su quali sono i limiti di questo rispetto soprattutto quando entra in contrasto con gli altri diritti. La scuola pubblica e laica è nata con il presupposto di sottrarre gli studenti all’influenza della chiesa cattolica ora possiamo anche decidere di trasformala in una scuola dove si rispettano le religioni (quindi anche quella cattolica) ma Scaparro ci dovrebbe spiegare nel concreto come una scuola possa essere al tempo stesso emancipatrice e rispettosa delle tradizioni. Per ora la scuola laica (non solo in Italia dove poi non è completamente laica) ha parecchie difficoltà a far convivere religioni diverse.

Massimo

Poichè “il mondo” (le cose che sono) è molteplice, vario e immensamente grande, più dei pensieri di ciascuno per se proprio: che così lo riducono al (solo) “proprio mondo” di ciascuno, si vive meglio e più giustamente senza dare un unico senso alla vita.
Dunque non nessuna etica, bensì un’etica plurale (come le cose che sono), contro un’etica “unitaria”: che non riduce solo tutte le cose che sono in “un’unico mondo” ma, ciascun per sé, riduce anche gli altri in quel “proprio unico mondo”.
E poiché questa pretesa non è oggettiva ma filosofica e religiosa, può essere perseguita solo con la forza e non con la ragione (almeno non si tratti della “ragine della forza”): per così essere imposta dai più forti (da chi di volta in volta diviene tale) a tutti gli altri.

Massimo

Una vera scuola laica deve insegnare la pluralità: non del proprio sentire ma delle cose sentite, delle cose che sono, secondo misura.
Per questo non “un’etica unica” e neppure “plurale”, bensì la pluralità delle etiche.

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