Il problema di uno è problema di tutti. Nel giro di meno di una settimana il mondo si è riunito due volte per prendere importanti decisioni sulla sua stessa sorte. La conferenza sul clima di Bali (chiusa il 14 dicembre) e la riunione per la moratoria sulla pena di morte all’Onu (del 18 dicembre) hanno consegnato alla politica globale due accordi con centinaia di firme in calce. In entrambi i casi però la domanda è nata spontanea: “Cosa cambierà adesso?”. E mentre abbiamo già visto qualche boia sospendere l’attività, sulla riduzione delle emissioni di gas serra sembra che tutti se la prendano un po’ più comoda. La 13° conferenza internazionale sul clima, che ha riunito le delegazioni di 190 paesi, ha infatti disatteso molte speranze a cominciare dal nostro ministro dell’Ambiente Pecoraro Scanio, che alla vigilia del vertice chiedeva “interventi obbligatori per tutti i paesi del mondo nei grandi settori di riduzione della CO2: energia, trasporti e abitazioni”. Niente del genere nei documenti votati al summit indonesiano, dove manca qualunque indicazione su quote-limite e tempi di adeguamento.”Non dobbiamo però dimenticare che gli obiettivi che noi europei ci prefiggiamo di raggiungere entro il 2020, ossia una riduzione del 20 per cento di emissioni di CO2 , il ricorso per il 20 per cento a energie rinnovabili e l’introduzione di un 10 per cento di biofuel, sono molto ambiziosi e il resto del mondo non è disposto a seguirci in questa corsa”, dice Vincenzo Artale climatologo dell’Enea, esponente italiano all’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc).
Da qui però a ignorare volutamente qualunque accenno a cifre e date ce ne passa. E in molti hanno accusato la conferenza di Bali di aver ceduto troppo alle lusinghe della realpolitik. “E’ un modo di considerare il bicchiere mezzo vuoto” commenta Artale, “quando invece per me c’è almeno un valido motivo per vederlo mezzo pieno. A Bali si è intrapresa la strada giusta per affrontare i problemi legati agli effetti dell’inquinamento sul clima, cioè lavorare tutti insieme con obiettivi e strategie condivise. Si è stabilito nero su bianco che sui problemi climatici non si possono fare scelte autonome. E’ un bel passo avanti rispetto alla 9° Conferenza mondiale del 2003 di Mosca, dove c’era un’atmosfera tesissima con la Russia sul piede di guerra, incerta fino all’ultimo se entrare o meno nel protocollo di Kyoto, che poi ha firmato”.
E in effetti sul documento finale, battezzato Bali roadmap, questa volta non c’è stata neanche una defezione: 190 sì (Usa compresi) per impegnarsi tutti insieme ad avviare due anni di trattative fino al vertice di Copenhagen nel 2009, dove verranno affrontate le problematiche del “post-Kyoto”. Sul tavolo danese, cioè, finiranno le proposte di ogni singolo Stato sui tagli alle emissioni di anidride carbonica da realizzare dal 2012 in poi, quando Kyoto decadrà. Il coro unanime di Bali ha stupito gli osservatori più scettici, soprattutto per la presenza al suo interno di quei paesi in via di sviluppo, privi di qualunque obbligo nei confronti del Protocollo di Kyoto (160 paesi aderenti). Anche loro hanno accettato di intraprendere “azioni appropriate” per la riduzione di gas serra riuscendo a ottenere in cambio finanziamenti e nuove tecnologie.
La partecipazione di questi paesi, la novità principale del vertice, dimostra che su alcune questioni tutti i popoli la pensano allo stesso modo, sostiene Artale: “C’è un’omogeneità di intenti che non può più essere ignorata dalle politiche dei governi. Se è diventata oramai opinione diffusa che non ha più senso puntare sull’energia da combustibili, come anche la comunità scientifica sostiene, i politici devono impegnarsi per dare valide alternative. I segnali che ultimamente hanno dato Eni, Enel e Confindustria, optando per soluzioni eco-compatibili fanno ben sperare”.
La riduzione dell’inquinamento atmosferico è obiettivo di tutti, ma sulle strade per arrivarci non sempre c’è un accordo. Solare, eolico o nucleare? Su cosa vale la pena puntare? Artale non ha dubbi: “Sono consapevole del fatto che le cosiddette energie alternative, come l’eolico o il solare non saranno sufficienti a coprire le esigenze dei paesi industrializzati. L’ambizioso traguardo, che si è prefissata la Germania, di raggiungere il 30 per cento di rinnovabili entro il 2020, prevede comunque un 70 per cento di approvvigionamento tradizionale. Nonostante questo, penso che il nucleare non sia la soluzione per i soliti noti problemi, come l’ostilità della gente e lo smaltimento delle scorie, e per i costi altissimi della costruzione e manutenzione delle centrali. Tanto che da tempo non si va oltre i 460 impianti esistenti sul pianeta. Nessun paese infatti valuta seriamente l’ipotesi di aumentare il numero delle proprie centrali, tutt’al più si sostituiscono le vecchie, con spese di dismissione enormi. Sarebbe invece molto più utile impiegare risorse economiche per migliorare l’efficienza delle strutture e dei processi di produzione attuali dell’energia. Si è stimato che in questo modo si può ottenere un incremento di energia del 10-15 per cento”. Ecco quindi un buon terreno su cui allenarsi in vista di Copenhagen.
Articolo di Giovanna Dall’Ongaro pubblicato su Galileo
speriamo non sia una pagliacciata.
servirebbero mille miliardi di euro per la ricerca sulle fonti rinnovabili invece che per la guerra, ogni anno.