Per la prima volta in 18 anni, Zember si è tolta i suoi anelli di ottone. «All’inizio mi sentivo a disagio », dice, massaggiandosi la gola. Zember, figlia di Mu Pao, è una ribelle. La sua è una protesta silenziosa e non violenta, che in qualche modo si addice al verde delle risaie intorno a Mae Hong Son, al Nord della Thailandia, al confine con il Myanmar.
Zember è una ragazza di etnia Padaung. Negli anni ’90, il suo popolo ha lasciato l’ex Birmania dei generali, in fuga dall’esercito che rastrellava gli uomini per farli a lavorare come portatori. La «terra promessa» si chiamava Thailandia. Lo stesso Paese che oggi, accusa l’Onu, li sottopone a un altro tipo di sfruttamento, più sottile ma non meno letale: quello del «turismo etnico». Perché le donne Padaung hanno anche un altro nome, coniato per loro da un ormai dimenticato esploratore polacco: «donne giraffa ». Il loro collo appare lungo in modo innaturale grazie all’uso di pesanti anelli di ottone, che pesano sulle clavicole e sul torace.
Nei dintorni di Mae Hong Son ci sono tre villaggi Padaung. Gli abitanti (circa 500) sono profughi birmani; in Thailandia, secondo l’ultimo rapporto dell’Unhcr — l’Alto commissariato Onu per i rifugiati —, sono presenti 133 mila rifugiati. […]
L’accusa è netta e senza esitazioni: il governo non vuole lasciar partire i Padaung per il ruolo centrale che rivestono nel circuito turistico. Perché i «lunghi colli» non vivono con gli altri rifugiati; per loro sono stati creati dei villaggi a sé, in cui anche un turista ha il permesso di entrare, purché sborsi una «tassa» da 250 baht (poco meno di 6 euro). Ufficialmente, gli abitanti non possono lavorare all’esterno; la loro sussistenza è legata alla percentuale del biglietto di ingresso che rimane nelle loro tasche. «È uno zoo umano — accusa la McKinsey —. L’unica soluzione è che i turisti smettano di andarci». Boicottaggio, dunque. Il governo, da parte sua, si trincera dietro a questioni burocratiche: i Padaung «non sono rifugiati — spiega alla Bbc il questore Wachira Chotirosseranee —; stando al regolamento, per esserlo bisogna vivere all’interno dei campi profughi» («Ma se sono state le autorità a volere che si stabilissero fuori!», replica la McKinsey). Peccato che un anno fa il senatore Kraisak Choonhavan avesse dichiarato alla Reuters: «I thailandesi, spiace dirlo, sono insensibili nei confronti delle minoranze etniche. E le “tribù delle colline” sono sempre stati un’attrazione redditizia». […]
Thailandia: donne giraffa, l’assedio dei turisti. Biglietto per vederle come allo zoo
7 commenti
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Che tristezza.
Vertebre e costole in bella vista sotto la pelle, seni minuscoli se non siliconati…Anche le nostre modelle alla Kate Moss fanno tristezza.
@ Sole
io sarei per il DE GUSTIBUS
più a favore di un esperienza estetica che di una teoria estetica
Strano: sapevo che era pericoloso, levare gli anelli, perché le vertebre sono troppo fragili, e il soggetto rischia brutte fratture e anche la morte.
non si finisce mai d’imparare
…e di sbagliare 😛
Anche io sapevo che rischiavano di rompersi il collo se toglievano gli anelli. Comunque ogni volta che sento storie di “ordinaria natura umana” penso che gli animali in confronto a noi, di qualunque specie, siano molto più onesti e nobili!
Se nei villaggi smetteranno di mettere gli anelli alle fanciulle si formerà una generazione di donne dal collo normale. Cesserà l’attrazione etnicoturistica e il motivo delle autorità thailandesi per tenerli praticamente in gabbia.
Saranno liberi ma avranno perso le loro tradizioni e parte dell’identità.
(anche se non è una bella tradizione, secondo me, in quanto rivolta solo a bambine, un pò come accadeva in cina con la fasciatura dei piedi)